Morte a pagamento

 Ivo Serenthà ha riportato sul suo blog "Freedom  libertà di parola" un paio di articoli molto interessanti di Marco Travaglio e di Gustavo Zagrebelski che offrono due punti di vista interessanti, e fanno molto pensare, sul tema del suicidio assistito. Anche il pensiero di Ivo è interessante e si avverte l'urgenza di "sistemare" una questione che pesa sul cuore. Una persona buona che cerca di aggiustare cose molto scomode da affrontare.

 Sistemare definitivamente questi argomenti è tanto difficile. Tentiamo di darci delle regole, ma poi ci accorgiamo che sono quasi sempre insufficienti, che ogni volta che si presenta il problema dobbiamo affrontarlo daccapo e ogni volta soffrire. Non si riesce ad evitarlo.

In questi giorni mio marito è stato operato alla cistifellea. L'intervento è andato bene ed è stato dimesso il giorno successivo. In ospedale c'era anche la Nara, mamma della mia amica Lucia.

Gli anziani. 

Arrivano in discrete condizioni fino ad età avanzata, poi, come è accaduto alla Nara in questi giorni, c'è un primo incidente, un problema intestinale, grave, e rischia di morire. La Nara è stata sempre bene, è triste, perché due anni fa è morto il marito, era stata con lui 55 anni, vivevano da soli e lui è morto dopo un lungo periodo in cui è stato affetto da demenza senile. Non si è sentita liberata alla sua morte, ha solo perso una ragione di vita. E' una donna autonoma, capisce ancora tutto, si occupa dei suoi affari, di quello che la riguarda, il condominio, le spese per la casa, va in banca a contrattare col direttore i tassi di interesse dei suoi risparmi, ma non le piace stare sola. Neanche stare con i figli, non vorrebbe abitare con loro. Ma le manca la famiglia grande, il rumore in casa, sentirsi indispensabile, le manca la sua giovinezza.

Chi gliela può ridare? Dice che per lei è finita,  non ha più senso. Non mi dice che cosa non ha più senso, ma è molto chiaro. Non lo può dire ai figlioli, a loro deve dire di occuparsi della casa, ritirare la posta, controllare la caldaia. Affida loro un carico a cui non sono abituati, e non può assegnare loro  il peso dell'angoscia, della paura che l'ha presa. L'avvertono comunque. Sono già diversi giorni che è a letto, pannolone, catetere, sondino, flebo, non si può muovere.
In questi casi è accanimento terapeutico? No, è solo la terapia, ma è una terapia che si accontenterà di prolungare un pò la vita, è una terapia per una persona anziana, che finora era stata bene.

Nel migliore dei casi tornerà a casa sua  e dovrà affrontare dei problemi: stare sola o andare in casa della figlia?  Sa che in casa della figlia sarà accolta bene, ma ...sappiamo tutti quali sono  i "ma". E in casa propria dovrà per forza cercare un aiuto, un'estraneo/a, con tutto ciò che ne deriva. Non tornerà  più com'era, dovrà spesso recarsi a fare controlli in ospedale, accompagnata,  nell'eventualità/paura che l'infezione intestinale si ripresenti. A 83 anni, dopo quello che ha avuto, non si può chiedere di più. E' già un pò depressa, lei che non era stata mai. Diciamo depressa, ma in realtà è una tristezza profonda e motivata. Questa cosa qui non si cura, è un sentimento ragionevole con una causa precisa, si può attenuare con gli psicofarmaci, ma non si può spegnere il cervello. Non è proprio giusto.

E' lontano dalla vicenda di Lucio Magri?  Lui non era malato, dico fisicamente, aveva seguito la malattia e la morte della moglie,  gli si era ammalata l'anima, con l'aggravante di una testa da sognatore, da utopista, che vede il degrado attuale e non trova più motivi per lottare.
 E' depressione? Certo, lo è, ma è una depressione motivata e lucida, finale.

Si può curare? Per me è più giusto chiedersi se si deve curare.
In moltissimi dovremmo curarci, allora, perché la realtà ci appare assurda oppure irta di ostacoli insuperabili. O mai superati, che  si ripresentano uguali ciclicamente. Siamo persone irrisolte o è irrisolta la realtà.
Questo è pensare, non essere depressi.
 Si può pensare diversamente, ma si vede che in quel momento l'occhio del Buddha o di un santo non ce l'abbiamo.
Non ci assiste neanche la fede, che fa dire ai disperati, Dio sono nelle tue mani,  fa di me ciò che vuoi.
Chi crede, davanti al desiderio proprio o altrui di togliersi la vita fa un passo indietro, la vita è di Dio, lui ce la da, lui ce la toglie. Far finire la propria vita prima del tempo è sostituirsi a Dio, diventare Dio di se stessi, l'ultima bestemmia.
Ma forse è dire : "Padre mio, Madre mia ( padre Cupia dice che Dio è anche madre) non sopporto più tutto questo, perdonami, torno da te. So che il senso di questo era viverlo fino in fondo, fino al buio più oscuro e al dolore più grande, per riuscire a vedere la tua luce, che ho già visto nel sole, nel mondo bellissimo e ora non vedo più, si è oscurata. Ma non lo sopporto, è oltre me, oltre tutte le mie forze."

Penso ci si arrivi così. Io per lo meno ho avuto dei momenti di sconforto profondissimo e ho pensato questo, da atea e da credente, tutto insieme.
Non si deve credere che chi pensa al suicidio sia solo un malinconico incline alla depressione. Credo invece che chi ama particolarmente la vita, chi si abitua ad una elevata qualità di vita intellettuale, spirituale,  sopporti meno il decadimento e la disperazione (mancanza di speranza) e diventi incapace di sopportarli, di tenerli a bada.

Chi non crede decide di tornare, come diceva Silvano Zoi, nel nulla da cui proviene. Ma anche questo è doloroso, nonostante si pensi all'ateo come un individuo forte, che si è posto tutte le  fatali domande e ha saputo rispondere senza invocare un Dio.

Una volta deciso si pensa come fare, nel concreto.
Penso che la maggioranza scelga l'impiccagione. E' un metodo semplice, non richiede di procurarsi un'arma, neanche farmaci, i detenuti si impiccano con qualunque corda, straccio, pezzo di lenzuolo.
E' un metodo cruento, si deve essere davvero disperati per farlo così.
Ma la disperazione è legata a questo ultimo gesto, disperazione e drammaticità, per celebrare la fine e l'abbandono dell'unico bene di cui siamo davvero proprietari, nel passaggio sulla Terra.
Le tragedie raccontano il suicidio come un "vaso" che contiene molte e dense emozioni .

Forse per questo l'atto pulito e privo di emozione di chi impartisce la morte a pagamento, benché low cost, mi agghiaccia tanto. Una morte gentile e ben educata, si occupano di tutto, possono perfino fare un funerale, sepoltura o cremazione, ad un prezzo davvero ragionevole.
 Travaglio l'ha chiamato "omicidio di consenziente".
 Zagrebelski  ci ha ragionato riguardo al tema delle libertà: è una libertà quella di farsi del male fino a farsi uccidere?  E qual è il ruolo vero di chi compie l'atto? Benefattore o assassino a pagamento?

In ogni modo stasera mi fermo al  momento in cui il pensiero di risolvere le cose che si sono fatte insopportabili comincia a prendere corpo e forse tornerà indietro o forse si farà pressante. Di questi pensieri, se fossimo telepati, sono pieni alcuni reparti dell'ospedale. Quando morì il mio suocero e andavo in ospedale tutti i giorni, me li sentivo addosso come se fossero viscosi. Sì, è un bene che non siamo telepati, saremmo assaliti da questi pensieri angosciosi, in certi luoghi. Li sentiamo ugualmente, in forma di odore, quando entriamo nelle stanze, e ci fanno paura, ci mettono in un profondo disagio.

Stasera sono tornata a trovare la mamma della Lucia, era amica della mia mamma, da giovane. Per la sua formazione e per carattere non è persona che penserebbe al suicidio.  L'ho trovata meglio, senza catetere, senza sondino, per la prima volta dopo 8 giorni aveva mangiato una minestrina.
Sono tornata a trovarla perché ho provato il desiderio di aiutarla a superare l'angoscia, per quanto è nelle mie possibilità. Niente come la presenza affettuosa di altri esseri umani allevia l'angoscia.

Non so bene cosa ho scritto, non è in polemica con nessuno, non pretende di sistemare niente, ci ho rinunciato da tempo, in argomenti come questi.