anni novanta del secolo scorso: fili di plastica e altre storie

Erano i primi anni novanta. Avevamo, con altre due donne, un piccolo negozio di prodotti bio, in centro. Si trovava in un edificio che era stato, agli inizi del secolo, l'ospedale di città, ma nessuno se lo ricordava più. Ora ospitava in una parte la sede del partito comunista, con il famoso circolo Aurora;  poi c'era un bar, e dei negozietti. Più in là una pizzeria. C'erano delle gallerie, che portavano nella stradina dietro, via Mannini. Noi eravamo in angolo, con l'ingresso sulla piazza e una vetrina sotto la galleria, dove c'era anche la macelleria equina, l'unica della città. La zona era centralissima, ma abbandonata, in Comune ne erano consapevoli, e ci avevano dato il permesso di aprire il negozio nell'ambito di un progetto di rivitalizzazione del centro storico, che consisteva nel fare aprire attività e lasciarle al loro destino. Il sabato, giorno del mercato grande, davanti a noi si piazzava un camion di ambulanti che ci oscurava completamente e ammorbava l'aria con un generatore diesel.  Davanti al bar, sullo scalino, perchè non c'erano tavolini fuori, anzi c'erano sempre auto parcheggiate, sedevano dei tossici, ormai avanti con l'età. Era proprio un punto di ritrovo. Davanti c'era una balaustra in pietra e tre pioppi, invecchiati, spettinati, con tanti segni di potature feroci, ma belli e vivi, e soprattutto facevano un po' d'ombra. I pioppi sono alberi dalla vita breve e di solito amano l'acqua... a ripensarci molti anni prima c'era stata acqua in piazza Sant'Agostino. C'erano i lavatoi pubblici dove le lavandaie svolgevano parte del loro lavoro, ma da un pezzo erano spariti tutti, lavatoi e lavandaie, e i pioppi furono tagliati tutti, uno per uno, già nei 5 anni che siamo state lì. Ogni tanto la mattina arrivava in vespa un notissimo spacciatore, uno della mia età che non capisco come abbia potuto per tutta la vita vivere vendendo droghe. Pare che lo faccia ancora. C'erano dei ragazzini a aspettarlo, magri, già segnati in faccia, nervosi, con la pelle grigia.  Per un pò si affollavano intorno alla vespa, poi lui se ne andava e i ragazzi si dileguavano, chi verso San Gimignano, chi sotto la galleria, chi in direzione del Corso. Ogni tanto veniva la Polizia, chiedeva i documenti. Una mattina uno dei ragazzi, giovanissimo, forse neanche maggiorenne, si era seduto sulla balaustra. Non avevo seguito tutta la scena, c'era da farsi trattare male a osservarli, ma quando mi riaffacciai all'esterno vidi che aveva pronta la siringa e stava facendo una cosa che mi gelò il sangue, stava affilando l'ago sulla pietra sudicia, lentamente, con metodo, come una vecchia abitudine, come uno che affila un rasoio prima di farsi la barba. Poi si legò un laccio al braccio e con tutta calma e alla luce del sole si fece la sua dose.

Questo era il posto. A descriverlo così sembra una piccola fine del mondo e in effetti lo era. Non so come spiegarlo neanche a me stessa, nella piazza c'era la chiesa di Sant'Agostino, poco più avanti c'era un bar storico, il caffè Sandy, frequentato dall'Arezzo bene, commercianti, liberi professionisti, e appena più in là il Corso Italia, con tutti i suoi negozi di lusso, eppure lì, a una trentina di metri, era tutta un'altra faccenda. Come un corso d'acqua che in un punto forma un gorgo dove finisce tutto il materiale raccolto, e lo sporco. Un posto di naufraghi, di abbandono. Anche il bar era così. C'era una coppia in giro, tutti e due umani venuti un po' male, lui gobbo, con la scoliosi e epilettico, lei pure forse con un handicap di qualche tipo. Diciamo che si chiamassero Poldo e Nunzia. Buoni, gentili, a volte però rabbiosi, vivevano in un alloggio assegnato loro dai servizi e passavano la giornata al bar. Bevevano e consumavano lì la pensione di invalidità. Avevo la seconda bambina molto piccola e a volte quando era con me in negozio la Nunzia mi chiedeva di prenderla in braccio. Gliela davo per un poco, col cuore stretto, mi dispiaceva di dirle di no, ma poi mi sentivo in dovere di lavare le manine alla bambina, perchè la donna puzzava molto di pipì. Ma come si dice, niente di ciò che è umano mi è estraneo. Solo eravamo consapevoli di non poter fare niente, non c'era possibilità di redenzione, di uscirne fuori.  Un giorno dopo aver riscosso la pensione i due pensarono di andarsene al mare. C'erano stati un paio di volte con un centro anziani e gli era piaciuto. In qualche modo arrivarono al mare, con la corriera, e stettero lì qualche giorno, in un albergo. Al bar li cercarono parecchio. Erano spariti. Quando tornarono quelli del bar erano molto arrabbiati. Dicevano di essere responsabili dei due, che non potevano andarsene senza avvisare e cose del genere. La Nunzia e Poldo avevano quasi finito tutti i soldi del mese e erano tornati con la coda fra le gambe. Cercarono di essere riaccolti al bar, ma non ce li volevano più. La Nunzia arrivò a piangere e gridare. Qualcuno mi disse, ma non so se sia vero, che appena riscossa la pensione la consegnavano al bar e per il mese ricevevano più o meno i pasti e da bere, e i soldi per le bollette di casa. Ma ora che avevano fatto quell'alzata di testa non ci si poteva più fidare.  

Una mattina arrivai e in terra c'erano delle macchie scure sull'asfalto irregolare e tutto crepato. Pensai: il macellaio aveva ricevuto il carico di carne e non aveva fatto in tempo a pulire. Le carcasse degli animali sgocciolavano e lui passava sempre con dei secchi d'acqua. Proprio lui venne a raccontarmi. Aveva un po' il gusto dell'orrido. Uno dei frequentatori del bar la notte precedente si era tagliato le vene! ma non lì, per il Corso. Poi era risalito in via Mannini. 
"Venga a vedere, ci sono le pozze! Poi è passato di qua sotto la galleria, ci sono macchie in terra anche qui, ma ormai il sangue l'aveva quasi finito... e ha sgocciolato fino qui. Poi hanno chiamato il 118. Hanno detto al bar che sono venuti bardati con dei guanti fino sopra i gomiti ma quello era arrabbiato e non voleva farsi toccare,  non l'hanno toccato finchè non è caduto, ha capito? Non se ne giovavano!" A vedere le pozze di sangue in via Mannini non ci andai, mi veniva da vomitare già solo a sentirne parlare.
Per diversi giorni parlarono molto male di quelli dell'ambulanza che avevano aspettato che cadesse, che fosse fuori gioco, per toccarlo, come una bestia, dicevano, un animale.  Eh no, non se ne giovavano, temevano per se stessi, perchè pare che il tipo fosse conosciuto e fosse sieropositivo. Dopo un paio di giorni era di nuovo in giro, con i polsi fasciati. Seduto sul solito scalino, a parlare della sua brutta avventura.

Sì, questo era il posto, e a riguardarlo ora che lo descrivo fa un po' paura, ma noi eravamo giovani e portatori di un'idea forte,  e non ci spaventava, anche se ci tenevamo abbastanza alla larga. Al piano di sopra c'era lo studio di G., che era un pittore. Ne ho parlato altre volte. Avrebbe potuto prendere lo studio da un'altra parte ma credo gli piacesse stare lì, in mezzo a quell'umanità così marginale, così fragile e violenta, che gli ricordava tutti i giorni chi siamo e che siamo fatti tutti dello stesso materiale. Era un'umanità che non comprava i suoi quadri, che non li vedeva neanche. Gli acquirenti venivano da altri quartieri, dove i vizi si nascondevano dietro una cortina di rispettabilità e ricchezza. 

Aveva un quadro che ritraeva un tossico che era morto qualche anno prima, lui lo chiamava per cognome, e l'aveva raffigurato seduto sullo scalino solito con la testa quasi affondata fra le ginocchia. Teneva questo dipinto fra i suoi cavalli e i suoi boschi infuocati, in vista. Gli piaceva dipingere alberi e cavalli, sempre con questi toni bollenti, rossi ruggine arancio, facevano venir sete a guardarli.  Certe mattine, ma questo in qualche post l'ho già detto, lui, io e il macellaio portavamo dai nostri orti un pomodoro, il più grosso che avevamo raccolto e si faceva la gara del più pesante, pesandolo sulla nostra bilancia. Era un gioco fra noi, che ci tirava fuori da quelle atmosfere grevi.

La mattina in piazza c'era tutti i giorni un piccolo mercato, frutta e verdura e bancarelle di biancheria e abiti. G. scendeva dallo studio e si sedeva sullo scalino del bar, o su quello del nostro negozio. Uscivo e parlavamo un po', gli ero molto affezionata, come a un altro padre, poi lui si alzava e acchiappava uno dei piccioni che svolazzavano in giro. C'era anche parecchia cacca di piccione, a un certo punto all'inizio, avevamo dovuto mettere dei dissuasori per non farli posare sulla tenda, che si era riempita di cacca. Ci si posavano di notte, dormivano lì.
G. parlava e intanto con una mano teneva il piccione e con l'altra pazientemente liberava le zampe dell'animale. Avevo visto che molti piccioni zoppicavano, ma non mi ero chiesta perchè. Anche quelli belli e giovani, più colorati e graziosi, con gli occhi vivaci, zoppicavano. Ogni giorno alla fine della mattinata di mercato, prima che passasse la nettezza urbana, restava a terra tanta roba, avanzi di cibo, pezzi di pane e panini e schiacciate, e frutta, e anche fili. Già, fili, non ci si immagina quanti fili possano produrre le bancarelle di abiti da poco prezzo, e non si tratta di fili di cotone, no, sono di plastica. Sono quei fili che poi quando stiri l'indumento si induriscono e si spezzano, o si fondono subito col calore, e si aprono le cuciture. Benché, anche se fossero stati di un altro materiale, forse avrebbe fatto poca differenza, ma di certo i fili di plastica tagliano come coltelli. I piccioni, rovistando fra quella roba in cerca di cibo, si legavano le zampe con questi fili che poi camminando a terra le strozzavano finché cadevano via dei pezzi. Si mutilavano da soli. Molti piccioni non potevano più posarsi se non a terra, perchè non avevano più le zampe ma dei monconi. Parecchi avevano i fili legati strettamente e G. li prendeva e li liberava. Tre o quattro per mattina, sapendo che il giorno dopo si sarebbero legati di nuovo. Un lavoro inutile, ma pietoso, quotidiano. Li liberava e scrollava la testa, perché sapeva che era una guerra persa. Ma così non li poteva vedere. Non me ne ero accorta di questa cosa dei piccioni mutilati, con le zampe gonfie e congestionate dove non scorreva più il sangue. G. aveva osservato e non li poteva vedere stare male. Mi chiedo quante cose vedesse, oltre ai piccioni. Ecco, c'era già tantissima plastica in giro, in fili, in pezzi minuscoli, chissà quanta ne mangiavano i piccioni, pensavo a questo in questi giorni vedendo l'ennesima foto di tartarughe e uccelli e pesci imprigionati da sacchetti e fili, o morti con la pancia piena di plastica. Uno di questi giorni un giovane uomo sui quarant'anni mi ha detto, stupito, che non capiva come si fossero potute formare queste isole plastica negli oceani. Era un pochino incredulo e arrabbiato. Ha detto che loro, al nord, fanno la raccolta differenziata. Come se il problema fossero gli ultimi dieci anni.