Norberto.
Sto arrivando! |
I genitori di chi era nato in città erano cresciuti per il Corso, si erano innamorati lì, non si sa nulla riguardo ai nonni, ma dal tempo dei nostri genitori l'hanno fatto parecchie generazioni. Lungo il Corso c'erano tanti negozi, i più belli, vecchi e noti della città . Uno di questi era la Calzoleria Carlini, vicino a San Michele, che era dei cugini del mio babbo. Anzi, all'inizio, quando ero piccina e abitavamo nei pressi del Corso Italia, in calzoleria c'era la zia Amelia. Era una donna alta e robusta, severissima, con i capelli molto bianchi e gli occhiali. Con la mia mamma era gentile, ma distante. Comandò lei fino alla sua morte, era la moglie del sor Domenico Carlini, che era morto da tanto.
In cucina. |
Dopo di lei i suoi figli, l'Adriana, l'Annamaria, Norberto . C'erano altri figli, ma in calzoleria non si vedevano mai. Norberto era architetto. Era un uomo molto alto, intorno a due metri, che quando ero piccola non mi prendeva in considerazione. Uno di quegli uomini che apprezzano i bambini solo quando sono figli loro, e lui allora non ne aveva. Ne ebbe tardi, dalla seconda moglie, e si entusiasmò molto, fu un padre tenero. Con me, quando ero sposata da poco e gli raccontavo dei miei esperimenti in giardino, parlava di piante. Un giorno mi portò a vedere il giardino che aveva dietro il negozio. Mai arei immaginato che ci fosse uno spazio verde dietro il negozio, praticamente in mezzo al Corso, nel cuore della vecchia città, vicino al Vicolo Appuntellato e al Vicolo del Capitano Ardelli, circondato dalle case e chiuso da un alto muro. Lo seguii in un lungo e tortuoso corridoio nel magazzino del negozio, ingombro di pile ordinate di scatole di scarpe. Finimmo davanti ad un portone con molti chiavistelli e catorci che lui aprì con un grosso mazzo di chiavi, e mi ricordò il mio nonno materno. Poi salimmo alla luce in un giardino in parte ombroso, tenuto non tanto bene, ma molto suggestivo, con edere che si arrampicavano dappertutto, un paio di piccole pergole sbilenche di legni vecchi e fili di ferro tirati a mano e imbarcati su cui camminavano una rosa Cocktail, una passiflora e una piccola clematide.
Da una parte c'era una fitolacca molto grande, quasi un albero, la riconobbi con sorpresa. Norberto mi disse noncurante che l'aveva lasciata crescere anche se era infestante, nata da sé, portata da un uccellino, uno di quelli che sentivo litigare sopra le nostre teste, ma non la trovavo bella, carica di bacche nere e succose? Bellissima, dissi, e lo pensavo. Come un vero snob Norberto coltivava in quel prezioso giardino cittadino non qualcosa di davvero originale e interessante, che pure avrebbe potuto. Lasciava crescere quello che ci aveva trovato, qualcosa che arrivava da sé con gli uccelli e anche degli iris, ma non di speciali varietà. La signora Luisa Bertelli, la suocera dell'Adriana, nel giardino della casa di Piazza Grande aveva avuto i primi iris che vedessi di colori diversi dall'azzurro/viola, e cioè gialli, rosso mattone e bianchi. Ne aveva dati dei rizomi alla mia mamma. Erano mezzi parenti e pensavo che li avesse dati anche a lui. Invece lui aveva solo le due varietà spontanee che si trovano in campagna, un tipo azzurro scuro e uno alto e pallido, iris pallida, appunto. Li magnificava molto, raccontava della loro presenza in tutte le vecchie case di contadini, erano fiori "storici", ma in realtà erano comunissimi. Insomma in quel giardinino non c'era niente di speciale, se non lo spazio stesso, che in mezzo alla città era una vera oasi, non si sentivano neanche i rumori della piazza di là dal cancello di legno compatto; e speciale era anche il modo in cui tutto cresceva, abbastanza liberamente e pochissimo limitato dal giardiniere. La rosa Cocktail, una rampicante moderna a fiore semplice, molto vivace, l'aveva introdotta lui ed era una presenza molto anni 70. C'erano molti lavori iniziati, tutti fatti da lui a mano. C'era in un angolo un setaccio per la terra molto grande, accanto ad un mucchio enorme di terra setacciata, insieme ad una pala e a altra terra da setacciare.
Un giorno mi fece vedere una struttura che aveva appena realizzato di legni fini con due supporti, gli chiesi cos'era, era molto bellina. Una panchina, mi disse. Era una vera panchina da architetto, molto carina e scomodissima, impossibile starci seduti per un minuto, ti faceva subito male il sedere. Intorno alla cannella dell'acqua per innaffiare aveva creato una struttura di mattoni e pietre graziosa e stramba, che vorrei saper fare anch'io. Anche quella una fontana da architetto, che si integrava benissimo fra le vecchie mura della città.
Insomma il giardino era, nonostante tutto, piacevolissimo, perchè dentro c'era lui, era lui il Genius Loci.
O meglio si trattava di una fusione fra lui e l'anima del giardino, che era stato per moltissimo tempo lasciato completamente a se stesso. Di solito questi giardini cittadini sono molto "addomesticati", con dei viottolini precisi e strettissimi segnati da bordi di mattoni e coperti di ghiaino, dappertutto c'erano, un tempo, le stesse piante: bosso, un alloro per l'odore, salvia, rosmarino, timo e persia(cioè maggiorana), ligustro, bergenia, lillà, iberis, mughetti, calendule, ortensie all'ombra... Erano spazi aperti con una funzione di servizio: c'era una capannina per la legna, un'altra per gli attrezzi e i conigli o le galline. Due o tre galline, per le uova. Qui, per il lungo abbandono, molte piante si erano perse e tutte le altre avevano vissuto un periodo di piena libertà. Ci lavorava in solitudine, era diventato il posto delle meditazioni e della pace, assillato com'era, in età matura, da una famiglia complicata con bambini piccoli, la sua.Vidi il giardino un'ultima volta, lui era caduto e faticava a rimettersi, era molto grosso e pesante, camminava col bastone e non poteva far quasi niente. Aveva ancora dei progetti per il giardino, progetti assolutamente irrazionali, cose che avrebbero richiesto il lavoro di lui se avesse avuto 25 anni di meno, ma i progetti sono speranze e sono proprio gli ultimi a morire. Il giardino era abbandonato e il Genius Loci dormiva profondamente, fra le edere selvagge che diventavano improvvisamente minacciose e si mangiavano la malta dei muri di recinzione.
Aveva tenuto quel giardino per pochi anni, una decina o quindici,che sembrano tanti, ma per un giardino sono pochissimi, l'aveva ereditato dalla famosa zia Nella, che io aveva visto sempre allettata, custodita da un'altra Carlini, sorella di Norberto, la Valeria, che io ricordo come una persona deliziosa. Erano morte tutte e due, zia anziana e nipote anziana anche lei, e il giardino con l'appartamento erano passati a lui. Passarono gli anni e io me ne andai ad abitare lontano, non capitavo più spesso in negozio. Avevo parlato con lui dei miei problemi e lui sdrammatizzava e ci scherzava sopra, ma aveva attentamente ascoltato. Mi telefonava ed erano telefonate in cui si chiacchierava e lui non era particolarmente affettuoso, era tonante e quasi minaccioso, mi invitava a prendere la vita col necessario distacco, ma si capiva molto bene che aveva per me un grande affetto che gli era difficile manifestare. Gli chiedevo come stava, sapevo che non camminava quasi più, ma proveniva da una famiglia in cui mai ci si lamenta, si sorvola e si scherza sui problemi personali. Mi telefonava per il puro piacere di parlare con me. Ho altri parenti da parte della mia mamma, sono molto più estroversi, fanno una gran festa, si lamentano molto dei loro guai, non capiscono affatto quelli degli altri, sembrano molto affettuosi, ma di te non gliene frega nulla. Non per cattiveria, per natura. Se ci vai che stanno giocando a carte ti invitano a tornare un'altra volta. E' capitato. Norberto mi telefonò un'ultima volta che mi commosse particolarmente, quando seppi che era morto capii che era stato un vero commiato.