Alice Munro: lavorare per vivere. Ma anche Vita con gli orsi
Ho comprato un librone di Alice Munro. Mi aveva incuriosito questo post comparso nel blog di Emilia de Rienzo "pensare in un'altra luce".
Il librone è intitolato "Mobili di famiglia", come uno dei racconti. Lei scrive racconti brevi, intorno a trenta pagine, di cui sono protagoniste delle donne.
Questo "lavorare per vivere" parla di una donna, della sua famiglia, di come vivevano in Canada al tempo che lei era piccola e prima ancora. Non sono capace di scrivere recensioni, l'ho già detto diverse volte, sono solo capace di dire cosa l'autore riesce a suscitare in me, in cosa mi rispecchio o cosa trovo sorprendente, o anche cosa risale alla superficie della coscienza mentre leggo, storie, esperienze, pezzi di vita. Non è già abbastanza che un libro faccia questo?
Il Canada mi incuriosisce.
Da piccola il babbo mi diede un librino da leggere, un'edizione economica, che è ancora in casa da qualche parte: "Vita con gli orsi". Consumato, molto ingiallito, ma c'è.
Era la storia di due giovani appena sposati che, nei primi anni del '900, andarono a vivere nei boschi vicino a Seattle, che allora era una città al confine fra la civiltà e i territori selvaggi. Non proprio Canada, ma quasi. Vivevano in una quasi totale solitudine, salvo la presenza degli animali selvatici e visite rarissime di umani, in una capanna di tronchi che avevano costruito, che all'inizio era fatta di una sola stanza. Si vede che già allora, all'età di 10 o 11 anni, tutta la faccenda della casa, del posto a cui si finisce per appartenere, dei problemi di organizzazione e sopravvivenza mi interessavano tanto: forse sarà davvero questione di segno zodiacale? Mi appassionò la questione della conservazione delle uova per tutto l'inverno. I due giovani tentarono le cose più disparate, come affogarle in un grasso e metterle in una fossa scavata nel pavimento della stanza. Una volta usarono la calce. In questi tentativi non avevano sempre successo, e spesso si trovavano, i primi anni, senza provviste sufficienti.
Un pò come dei Robinson Crusoé volontari, si riaffacciavano alla vita alla fine del lungo inverno del nord, insieme agli orsi che uscivano dalle tane. Gli orsi, diceva il libro, prima di andare in letargo si purgano mangiando delle rocce che contengono allume. Sanno bene come fare, sono cose che la madre orsa insegna ai figli; se non si purgano, durante il sonno invernale, in cui tutte le funzioni sono ridotte, i parassiti intestinali se li mangiano vivi e si svegliano debolissimi o non si svegliano per niente. E se un cucciolo perde la madre, anche se è grande e sopravvive bene alla prima stagione, può non superare l'inverno, perché nessuno gli ha insegnato a purgarsi. Vedi quante cose mi ricordo. Sono stupita! Sarà perché le ho lette da piccola. Gli indiani, che andavano a trovarli ogni tanto, li chiamavano, dal nome del posto dove avevano costruito la capanna, "la signora e il capo Kwalate" o qualcosa del genere. Chissà poi come si legge.
C'è poi il periodo in cui lui, per sopravvivere, fece il taglialegna con una squadra ed ebbe anche un brutto incidente. Cose raccontate con leggerezza, grossi guai considerati parte naturale della vita. Poi naturalmente ci sono gli orsi, che da quelle parti sono Grizzly, orsi grigi enormi e pericolosi, ma a modo loro socievoli, che capitava andassero a visitarli, attratti da odori di cibo o anche solo curiosi.
Mia figlia a fine primavera è stata a Yosemite, sì, proprio negli USA, con altri studenti del suo master of Science. Di notte dovevano chiudere tutto ciò che profumava o odorava in certi armadietti fuori dalle tende, per evitare la visita degli animali selvatici; lei personalmente ha allontanato un procione. Ha dovuto farlo lei, perché le sue compagne di tenda erano più giovani e più piccole fisicamente. Anche molto impaurite, quando hanno sentito i rumori fuori. Ha dovuto farsi coraggio, perché non era sicuro, da dentro la tenda, che si trattasse di un procione. Una ragazza coraggiosa. Il procione aveva frugato dappertutto.
Insomma questo "Vita con gli Orsi" me lo sono portato dietro quando mi sono sposata, anche se era della biblioteca del babbo, e anche ora è qua in giro. La parte iniziale di "Lavorare per vivere" mi ha ricordato "Vita con gli orsi". Il padre della narratrice, molto giovane, ad un certo punto decide di lasciare la scuola e occuparsi della campagna, ma non come lo facevano i suoi genitori, a modo suo, cacciando animali da pelliccia. Ha letto molti libri sulla vita selvaggia, di cui le biblioteche americane sono ricche, e comincia a esplorare il territorio che tanto selvaggio non lo è più, da quelle parti. Gli agricoltori lo hanno disboscato, addomesticato, piegato ai loro bisogni. Restano delle fasce di bosco lungo il fiume, residui della grande foresta originaria, ed è lì che comincia a mettere le trappole. Nel continente nordamericano tutti hanno messo trappole per animali da pelliccia, i primi sono stati gli indiani, per vestirsi. Tanti animali diversi, splendidi animali: martore, linci, visoni, volpi, castori, donnole, topi muschiati. La donnola, dice Alice Munro, raggiunge il candore assoluto intorno al 20 dicembre, ed è allora che si caccia.
Una pelliccia naturale di un candore assoluto! Una vera meraviglia. Con pellicce simili si facevano i mantelli dei re.
Non so se capita anche agli altri, ma quando un racconto parla di cose che conosco o conoscevo bene mi prende di più.
La matrigna della mia mamma, che chiamavo zia Emma, aveva una pellicceria.
Ci andavamo spesso, quanto spesso non lo so più. Fino a che non cambiammo casa, l'anno della terza elementare, dovevamo andarci quasi tutti i giorni, perché era vicinissima a casa. All'inizio c'era anche il nonno, morì quando avevo 3 o 4 anni. La pellicceria era fatta di due stanze separate da una porta: un negozio e un laboratorio in cui venivano confezionate le pellicce.
Entravo, salutavo la zia e la Lilli, che era la sua "lavorante", e, come se fossi in casa mia, andavo ad aprire gli armadi del negozio, e a strusciare il viso sulle pelli riposte, attaccate a mazzi ad un palo.
Castoro, marrone molto scuro e lucente, come le castagne, di più. Morbido e vellutato, ma ogni tanto bucava, come se fra i corti peli serici fossero nascosti degli spilli invisibili. I visoni erano meno morbidi, ma non bucavano mai. Le volpi: potevi affondarci la faccia, per quanto era lunga e soffice la pelliccia.
Le pelli di ocelot, (che è un felino del sud america, tipo un piccolo giaguaro), invece, erano solo belle da vedere, ma non tanto morbide, maculate. Si accarezzavano solo per un verso. Perché erano macchiate lo imparai su un libro di storie di Kipling, non me l'aveva ancora detto nessuno. Per molto tempo in vetrina ci fu una pelle di leopardo, quella aveva la testa con i denti scoperti, come se stesse per mordere. Doveva costare una fortuna.
Astrakan e ramoschè.
La mamma diceva: è sportivo il ramoschè, non è impegnativo, come pelliccia.
All'inizio del racconto la narratrice dice che il padre a scuola aveva imparato una poesia a memoria e la ripeteva spesso così come l'aveva imparata, senza molto senso. Un giorno un insegnante la scrisse alla lavagna e lui capì cosa realmente diceva quella poesia. Fino a quel momento aveva accettato che gli avessero insegnato una cosa quasi incomprensibile, che ci fossero cose, in generale, che gli sfuggivano completamente.
Per me la parola "ramoschè", per esempio. La zia, la mamma, la Lilli, dicevano ramoschè, (rami e mosche, per me piccina) in realtà "rat musqué", parola francese, perché il Canada è francofono. Topo muschiato. Se mi avessero detto che quelle erano pellicce di topo muschiato, avrei capito che si trattava di un animale, ma dicevano ramoschè. Erano pellicce e non animali, per me. Erano cose meravigliosamente morbide e setose con un bellissimo colore, non animali. Restava, degli animali che erano state, un accenno delle zampine dei visoni e delle volpi, mentre a quel quasi niente che restava delle teste si infilava il gancio o il nastro che li teneva attaccati all'armadio. Ancora, a volte, la zia Emma preparava una specie di sciarpe fatte con la pelle intera del visone: due visoni, attaccati per la testa, e allora si preoccupava di ricostruire la testa mettendole anche degli occhi di vetro, che mi piacevano molto. Gli occhi mi piacevano, ma le vecchie signore barbogie con le pelli drappeggiate al collo mi facevano senso e più tardi, quando cominciavo a capire, rabbia. Poi per fortuna questo modo di indossare le pellicce passò definitivamente di moda. Il padre della protagonista era uno di quelli che mandavano le pellicce per il mondo, perfino in Italia, fino negli armadi della zia Emma. Trenta anni prima che io nascessi. Se le avessi chiesto da che parte del pianeta veniva ognuna di quelle pelli chissà se avrebbe saputo rispondere. Credo che conoscesse solo il nome del rivenditore all'ingrosso.
Il librone è intitolato "Mobili di famiglia", come uno dei racconti. Lei scrive racconti brevi, intorno a trenta pagine, di cui sono protagoniste delle donne.
Questo "lavorare per vivere" parla di una donna, della sua famiglia, di come vivevano in Canada al tempo che lei era piccola e prima ancora. Non sono capace di scrivere recensioni, l'ho già detto diverse volte, sono solo capace di dire cosa l'autore riesce a suscitare in me, in cosa mi rispecchio o cosa trovo sorprendente, o anche cosa risale alla superficie della coscienza mentre leggo, storie, esperienze, pezzi di vita. Non è già abbastanza che un libro faccia questo?
Il Canada mi incuriosisce.
Da piccola il babbo mi diede un librino da leggere, un'edizione economica, che è ancora in casa da qualche parte: "Vita con gli orsi". Consumato, molto ingiallito, ma c'è.
Era la storia di due giovani appena sposati che, nei primi anni del '900, andarono a vivere nei boschi vicino a Seattle, che allora era una città al confine fra la civiltà e i territori selvaggi. Non proprio Canada, ma quasi. Vivevano in una quasi totale solitudine, salvo la presenza degli animali selvatici e visite rarissime di umani, in una capanna di tronchi che avevano costruito, che all'inizio era fatta di una sola stanza. Si vede che già allora, all'età di 10 o 11 anni, tutta la faccenda della casa, del posto a cui si finisce per appartenere, dei problemi di organizzazione e sopravvivenza mi interessavano tanto: forse sarà davvero questione di segno zodiacale? Mi appassionò la questione della conservazione delle uova per tutto l'inverno. I due giovani tentarono le cose più disparate, come affogarle in un grasso e metterle in una fossa scavata nel pavimento della stanza. Una volta usarono la calce. In questi tentativi non avevano sempre successo, e spesso si trovavano, i primi anni, senza provviste sufficienti.
Un pò come dei Robinson Crusoé volontari, si riaffacciavano alla vita alla fine del lungo inverno del nord, insieme agli orsi che uscivano dalle tane. Gli orsi, diceva il libro, prima di andare in letargo si purgano mangiando delle rocce che contengono allume. Sanno bene come fare, sono cose che la madre orsa insegna ai figli; se non si purgano, durante il sonno invernale, in cui tutte le funzioni sono ridotte, i parassiti intestinali se li mangiano vivi e si svegliano debolissimi o non si svegliano per niente. E se un cucciolo perde la madre, anche se è grande e sopravvive bene alla prima stagione, può non superare l'inverno, perché nessuno gli ha insegnato a purgarsi. Vedi quante cose mi ricordo. Sono stupita! Sarà perché le ho lette da piccola. Gli indiani, che andavano a trovarli ogni tanto, li chiamavano, dal nome del posto dove avevano costruito la capanna, "la signora e il capo Kwalate" o qualcosa del genere. Chissà poi come si legge.
C'è poi il periodo in cui lui, per sopravvivere, fece il taglialegna con una squadra ed ebbe anche un brutto incidente. Cose raccontate con leggerezza, grossi guai considerati parte naturale della vita. Poi naturalmente ci sono gli orsi, che da quelle parti sono Grizzly, orsi grigi enormi e pericolosi, ma a modo loro socievoli, che capitava andassero a visitarli, attratti da odori di cibo o anche solo curiosi.
Mia figlia a fine primavera è stata a Yosemite, sì, proprio negli USA, con altri studenti del suo master of Science. Di notte dovevano chiudere tutto ciò che profumava o odorava in certi armadietti fuori dalle tende, per evitare la visita degli animali selvatici; lei personalmente ha allontanato un procione. Ha dovuto farlo lei, perché le sue compagne di tenda erano più giovani e più piccole fisicamente. Anche molto impaurite, quando hanno sentito i rumori fuori. Ha dovuto farsi coraggio, perché non era sicuro, da dentro la tenda, che si trattasse di un procione. Una ragazza coraggiosa. Il procione aveva frugato dappertutto.
Insomma questo "Vita con gli Orsi" me lo sono portato dietro quando mi sono sposata, anche se era della biblioteca del babbo, e anche ora è qua in giro. La parte iniziale di "Lavorare per vivere" mi ha ricordato "Vita con gli orsi". Il padre della narratrice, molto giovane, ad un certo punto decide di lasciare la scuola e occuparsi della campagna, ma non come lo facevano i suoi genitori, a modo suo, cacciando animali da pelliccia. Ha letto molti libri sulla vita selvaggia, di cui le biblioteche americane sono ricche, e comincia a esplorare il territorio che tanto selvaggio non lo è più, da quelle parti. Gli agricoltori lo hanno disboscato, addomesticato, piegato ai loro bisogni. Restano delle fasce di bosco lungo il fiume, residui della grande foresta originaria, ed è lì che comincia a mettere le trappole. Nel continente nordamericano tutti hanno messo trappole per animali da pelliccia, i primi sono stati gli indiani, per vestirsi. Tanti animali diversi, splendidi animali: martore, linci, visoni, volpi, castori, donnole, topi muschiati. La donnola, dice Alice Munro, raggiunge il candore assoluto intorno al 20 dicembre, ed è allora che si caccia.
Una pelliccia naturale di un candore assoluto! Una vera meraviglia. Con pellicce simili si facevano i mantelli dei re.
Non so se capita anche agli altri, ma quando un racconto parla di cose che conosco o conoscevo bene mi prende di più.
La matrigna della mia mamma, che chiamavo zia Emma, aveva una pellicceria.
Ci andavamo spesso, quanto spesso non lo so più. Fino a che non cambiammo casa, l'anno della terza elementare, dovevamo andarci quasi tutti i giorni, perché era vicinissima a casa. All'inizio c'era anche il nonno, morì quando avevo 3 o 4 anni. La pellicceria era fatta di due stanze separate da una porta: un negozio e un laboratorio in cui venivano confezionate le pellicce.
Entravo, salutavo la zia e la Lilli, che era la sua "lavorante", e, come se fossi in casa mia, andavo ad aprire gli armadi del negozio, e a strusciare il viso sulle pelli riposte, attaccate a mazzi ad un palo.
Castoro, marrone molto scuro e lucente, come le castagne, di più. Morbido e vellutato, ma ogni tanto bucava, come se fra i corti peli serici fossero nascosti degli spilli invisibili. I visoni erano meno morbidi, ma non bucavano mai. Le volpi: potevi affondarci la faccia, per quanto era lunga e soffice la pelliccia.
Le pelli di ocelot, (che è un felino del sud america, tipo un piccolo giaguaro), invece, erano solo belle da vedere, ma non tanto morbide, maculate. Si accarezzavano solo per un verso. Perché erano macchiate lo imparai su un libro di storie di Kipling, non me l'aveva ancora detto nessuno. Per molto tempo in vetrina ci fu una pelle di leopardo, quella aveva la testa con i denti scoperti, come se stesse per mordere. Doveva costare una fortuna.
Astrakan e ramoschè.
La mamma diceva: è sportivo il ramoschè, non è impegnativo, come pelliccia.
All'inizio del racconto la narratrice dice che il padre a scuola aveva imparato una poesia a memoria e la ripeteva spesso così come l'aveva imparata, senza molto senso. Un giorno un insegnante la scrisse alla lavagna e lui capì cosa realmente diceva quella poesia. Fino a quel momento aveva accettato che gli avessero insegnato una cosa quasi incomprensibile, che ci fossero cose, in generale, che gli sfuggivano completamente.
Per me la parola "ramoschè", per esempio. La zia, la mamma, la Lilli, dicevano ramoschè, (rami e mosche, per me piccina) in realtà "rat musqué", parola francese, perché il Canada è francofono. Topo muschiato. Se mi avessero detto che quelle erano pellicce di topo muschiato, avrei capito che si trattava di un animale, ma dicevano ramoschè. Erano pellicce e non animali, per me. Erano cose meravigliosamente morbide e setose con un bellissimo colore, non animali. Restava, degli animali che erano state, un accenno delle zampine dei visoni e delle volpi, mentre a quel quasi niente che restava delle teste si infilava il gancio o il nastro che li teneva attaccati all'armadio. Ancora, a volte, la zia Emma preparava una specie di sciarpe fatte con la pelle intera del visone: due visoni, attaccati per la testa, e allora si preoccupava di ricostruire la testa mettendole anche degli occhi di vetro, che mi piacevano molto. Gli occhi mi piacevano, ma le vecchie signore barbogie con le pelli drappeggiate al collo mi facevano senso e più tardi, quando cominciavo a capire, rabbia. Poi per fortuna questo modo di indossare le pellicce passò definitivamente di moda. Il padre della protagonista era uno di quelli che mandavano le pellicce per il mondo, perfino in Italia, fino negli armadi della zia Emma. Trenta anni prima che io nascessi. Se le avessi chiesto da che parte del pianeta veniva ognuna di quelle pelli chissà se avrebbe saputo rispondere. Credo che conoscesse solo il nome del rivenditore all'ingrosso.
Il padre della protagonista cacciò animali con grande attenzione per non sciupare le pellicce finché non gli venne l'idea di allevarli.
Volpi, per l'esattezza, e non volpi comuni. Nelle nidiate nascevano eccezionalmente volpi dal manto scuro, nero, con rari peli bianchi. Le chiamavano "volpi argentate". Anche le pelli pregiatissime di volpe argentata erano custodite negli armadi della zia Emma. Lui seppe che qualcuno allevava volpi argentate da pelliccia e comprò la prima coppia, iniziando una vera attività da imprenditore. Si sposò e nacquero i figli. La moglie era una lontana cugina, maestra. Ma le cose, fra crisi e guerre, per il commercio delle pellicce, erano destinate a cambiare. Un anno lui aveva talmente pochi soldi da temere seriamente di non poter più andare avanti la famiglia.
Qui il racconto fa un salto. La narratrice, sposata, è in viaggio col marito in auto; si fermano ad un distributore di benzina e lei riconosce il posto. "Credo di essere già stata qui, forse da piccola, ma non riesco a ricordare..." Cerca nella memoria ed emerge un'emozione: una delusione. Ma che tipo di delusione? Un gelato, ecco, si tratta di un gelato.
Questo percorso dall'emozione, al recupero del ricordo completo, è una cosa che capita anche a me. Per la protagonista c'è prima il gusto del gelato, deludente, un gelato della stagione prima, o prima ancora, invecchiato nel freezer del distributore, che non ha il buon sapore che aveva immaginato ed è fatto di cristalli d'acqua separati da tutto il resto. Era stata lì con il padre, durante un altro viaggio in auto, fatto nell'infanzia, insieme dovevano raggiungere la madre, che era andata a vendere di persona le pellicce già confezionate e le pelli in un grande albergo di montagna aperto per l'estate e pieno di turisti. Alla madre era venuta quest'idea da imprenditrice, di proporre lei stessa i prodotti di famiglia, senza intermediari. E aveva funzionato. Sporchi, stanchi per il viaggio, la bambina spettinata, il padre impaurito per i problemi economici, la incontrano nella hall dell'hotel: la figlia quasi non la riconosce, per il vestito a fiori, per l'aria disinvolta, per la sicurezza e la tranquillità che emana, per la dolcezza con cui si rivolge a lei. Quella non è la mamma, non può essere, che è successo?
Le racconta del cattivo gelato e la direttrice, che è lì con loro, gliene fa portare uno molto grosso e buono, in una coppa, coperto di salsa di cioccolato.
"Un affogato al cioccolato? Questo si chiama affogato?"chiede la piccola estasiata.
"Affogato? Credo di sì"- dice la signora facendole una carezza, poi si allontana affaccendata.
C'è quindi questa foto della madre, che, piena di soddisfazione, spiega come riesce a vendere le pellicce: ha messo un cartello dove c'è scritto qualcosa tipo "Il lusso firmato Canada" e si propone non come una che chiede per favore di comprare qualcosa, ma come una donna che condivide begli oggetti e non ha bisogno di implorare nessuno. Insomma, si direbbe quasi: moderne tecniche di marketing. Il padre prende fiato, sollevato: sua moglie ha i soldi, e lui può intanto riparare l'auto che ha rischiato di lasciarli a piedi. Sua moglie li ha salvati tutti.
All'epoca e sempre nella storia le donne sono state Yin, e gli uomini Yang, le donne lunari e passive, e gli uomini solari e attivi. Le madri accoglienti e ferme, a rassicurare nelle difficoltà, e i padri a risolvere i problemi.
Ma spesso invece le donne si attivano, mettono in piedi attività e le fanno funzionare e, quando le cose vanno, la soddisfazione esce da tutti i pori e ci si sente in pace col mondo e con noi stesse. Ci si sente Yin e Yang, tutto insieme.
Alice Munro scrive tanti racconti e non tutti sono autobiografici, questo lo è, è un pezzo di vita della sua famiglia, e io l'ho capito solo dopo averlo letto. Sua madre purtroppo si ammalò presto di Parkinson e la sua attività di venditrice in proprio finì. Il padre chiuse l'allevamento di volpi e tolse ogni traccia, eliminando i recinti e le gabbie, poi andò a lavorare in una fonderia.
Parlando con la figlia di questa esperienza di allevatore le disse di aver saputo che in Oriente credono che anche gli animali abbiano un'anima e che ci sia anche per loro un aldilà.
"Io, troverò schiere di volpi arrabbiate pronte a sbranarmi, quando morirò, e una mandria dei cavalli che ho ucciso per dar loro da mangiare..." Disse anche che quando si fanno certe cose si fanno e basta, e non ci si sofferma a pensare tanto. Perché forse poi non se ne farebbe niente?
Un anno dopo la morte della mia mamma mio fratello mi ha dato delle cose sue, fra cui due sacchetti di tela chiusi da un laccio con dentro dei colletti di pelliccia, di ocelot, di astrakan, che è poi una pelle di agnellino, e dei ritagli di visone. Ciò che resta della pellicceria. Non so che farmene. I colli non si adattano alle cose che indosso. Ma non posso neanche pensare di liberarmene, anzi ho messo dell'antitarme per conservarli. Sono ancora morbidi come allora, le pellicce ben tenute si conservano molto a lungo. Non è solo che mi ricordano l'infanzia, questo semmai è secondario, è che li trovo oggetti preziosi, inutili, nel senso che non so come usarli, ma preziosi. Sono sempre pellicce di creature che furono vive, e quando sono ben conciate non ci sono molte cose più belle al mondo. Inoltre mi appartengono, fanno parte di me, se si considera che da molto piccola ero in grado di riconoscere le pellicce e dar loro il giusto nome. La mamma non volle mai una pelliccia, ebbe invece questi colli per i cappotti. Non volle una pelliccia perché con la matrigna e col padre aveva sempre avuto un cattivo rapporto, migliorato con la mia nascita (ero la prima figlia). Quando entravamo in pellicceria lei non era mai tranquillamente sorridente, fiduciosa, aperta. Era sempre sul chi va là, sempre all'erta, sempre pronta a pungere. Non era facile averla come mamma. E non voleva dover dire grazie alla matrigna, né per un dono né per uno sconto. Inoltre amava gli animali più delle persone e probabilmente trovava difficile, come me, indossare una pelliccia. La pellicceria fu chiusa in una data che non ricordo: per me era successo negli anni della scuola elementare, per la moglie del fratellastro della mamma, la nuora della zia Emma, era stata chiusa nel 1970. Tutte e due, la nuora della zia e la mamma, dicevano ognuna di aver chiuso la pellicceria, cioè di aver aiutato la zia a farlo. Ognuna ricordava di aver fatto lei il grosso del lavoro. Io ricordo che la mamma usciva ogni giorno dicendo che andava in pellicceria, ci lasciava con la donna di servizio e era molto contenta perché aveva da fare. Però ho idea che in realtà la fatica vera l'abbia fatta la zia Emma.
Non ho mai voluto pellicce, neanche colletti, ma quando mi dovevo sposare, ed era gennaio, la mamma mi disse che forse avrei dovuto mettere una giacca sul vestito rosso che mi aveva fatto la sarta, la signorina Ada. Una giacca di pelliccia, disse, sarebbe andata bene, mi avrebbe tenuto caldo...io dissi di no, poi mi lasciai convincere e andammo in una pellicceria in città. Mentre aspettavamo che ci servissero c'erano vicino a noi due donne: una più anziana si provava una pelliccia davanti ad uno specchio, la figlia seduta a guardare come le stava. Erano due mogli di orafi aretini, industriali molto ricchi e spesso ignoranti. Parlavano in dialetto, la figlia disse : "Un te sta bene, te se vede le polpe"
Tradotto: "Non ti sta bene, perché è corta, ti si vedono i polpacci"
Questa frase mi svegliò, mi guardai intorno e dissi a mia madre: "Che ci facciamo qui? Non voglio una pelliccia, non l'ho mai voluta, andiamo via."
Che dire: ho viaggiato in molte storie con Alice Munro e mi piace moltissimo: un'altra grande scrittrice.
Ora per me le pellicce son quelle, indossate dal vivo, della Holly e dei gatti. Qualche volta dico a Orazio, gatto nero dalla pelliccia folta e lucida, che se non fa il bravo lo vendo ai cinesi che se lo mangiano e con la sua pelliccia ci faccio un colletto come quelli della zia Emma. Ovviamente non capisce le parole, ma sa che voglio dire l'esatto contrario e mi fa le fusa.