Pane integrale

Nel 1989, di marzo, aprì "L'Erba salvia", il nostro negozio di prodotti biologici, nostro perché eravamo in tre donne. Volevamo vendere non solo prodotti secchi e a lunga conservazione, ma, da subito, volevamo avere quello che di fresco poteva offrire un mercato ancora povero di varietà. Latte fresco, tofu, perfino carne, arrivarono solo dopo: all'inizio c'era un pò di frutta, verdura, yogurt, latticini e PANE. E le buone cose che produceva la Fulvia: una ricotta meravigliosa e del meraviglioso pecorino, più, ogni tanto, qualche formaggio esperimento, sempre ottimo tipo la cacioricotta o il raviggiolo. 
Come fare con il pane, come procurarselo? Bisognava averlo fresco tutti i giorni, perché non eravamo a Firenze, dove la gente si leticava, nei negozi del biologico, anche un pezzo di pane magari di tre giorni. Eravamo ad Arezzo, nella provincia più conservatrice, e il nostro pane bio doveva essere comune pane toscano, fatto con farina da grano biologico, sciocco, cioè non salato, come da tradizione, e fresco tutti i giorni. Ci sarebbe stato anche il pane integrale, ma solo come alternativa. All'inizio la Fulvia comprava il grano da qualche produttore locale e lo portava a macinare al Mulino Grifoni, che ora è famoso, in Casentino. Una volta ci andai con lei a ritirare la farina ed era un gioiello, un mulino antico, quasi intatto, mosso dall'acqua di un torrente, ancora in funzione dopo centinaia d'anni dalla costruzione. Dopo un paio d'anni cambiammo mugnaio. Dopo un rapido passaggio dal mulino che era sulla strada fra Palazzo del Pero e Molinnuovo, andavamo dal Tortelli, a Bibbiena. Il signor Tortelli, Natale di nome, era un omino piccolo e anziano, esile, che si caricava sul groppone balle di farina da 50 kg e me le metteva nel portabagagli della macchina. Non faceva una piega, ci era abituato, ma lo stesso barcollava sotto il peso e ogni volta mi sembrava che cadesse. Gli andavo intorno allarmata (come se fossi stata capace di tenerlo se cadeva, lui e la balla) e lui rideva."Non cado, non cado!" Il Tortelli non ci costringeva a cercarci il grano, aveva sempre partite di grano bio per i numerosi stranieri e italiani che vivevano in Casentino e si facevano il pane in casa. Per il fornaio ci rivolgemmo ad uno di città che era noto per fare un pane discretamente buono in un forno a legna. Prendemmo accordi: acqua farina e lievito, senza aggiunte. La lievitazione non era naturale, c'era anche un pò di lievito di birra, oltre alla pasta madre, perché seguire una procedura separata e accurata gli creava problemi. Comunque alla fine avevamo del pane fresco tutti i giorni, bio, con farina macinata a pietra e cotto in uno degli ultimi forni a legna di Arezzo. Ne portai una pagnotta in regalo alla moglie di un caro amico; le spiegai cosa stavamo facendo, col negozio. Neanche lo guardò, quel pane. Qualche anno dopo, una volta che ero andata a trovarli, mi offrì una fetta di un altro pane simile, che però non era bio, e mi sciorinò tutta una filippica sul fatto che era un pò scuro, perché era macinato a pietra, e a lievitazione naturale. Sembrava che fosse la prima volta che sentiva parlare di quelle cose. Me, quella volta, non mi aveva neanche sentito. Ci sono persone che sono sensibili solo alle mode: quando le cose, ogni genere di cose, diventano di moda, le annusano nell'aria, ma non c'è un vero interesse profondo, qualitativo, sono pronte a lasciare rapidamente quella moda per la prossima, perfino opposta.
Comunque questo pane che avevamo non mi soddisfaceva del tutto. Arezzo non era certo il posto giusto per proporre il pane nero del nord Europa, salato, fatto con farina di segale e semi. Io stessa lo apprezzavo, ma per cucinare certe cose della nostra tradizione occorre il pane sciocco toscano: con quello siamo cresciuti e quello resta per noi il vero pane. Con quello si fa la minestra di pane, più nota come Ribollita, e la Panzanella, quello si accompagna ai pecorini saporiti, alle acciughe, alle aringhe e soprattutto al nostro prosciutto. Io non sono una che storce il naso e mi piace molto assaggiare i cibi degli altri, quando vado in giro mangio il cibo del posto, che è anche un modo per conoscere veramente il mondo, e mi piace molto mangiare; però poi, a casa mia mangio volentieri le cose della tradizione e il nostro pane. 
Una sorpresa invece era stato il nostro pane integrale: il fornaio lo cuoceva nelle cassettine, ed era proprio buono. 

La Fulvia, la mia socia più grande, magnificava il pane di Pelago. Pelago è un posticino in cima ai monti del Pratomagno, alla Consuma. Lì c'era, e c'è ancora, un fornaio che aveva cominciato da ragazzo, a rifare il pane di una volta nel vecchio forno di casa. Si chiama Stefano Borselli, e il forno si chiama "Forno la Torre" e dal vendere il pane alle prime fierine del biologico ha finito per fornire i panettoncini biologici monoporzione alla British Airwais per Natale.
Il suo pane e anche tutto il resto, è una favola. Se lo scrivo io bisogna crederci, non sono affatto propensa ai complimenti in questo genere di cose. Abbiamo avuto, ogni tanto, anche altri pani, e per fortuna non ricordo più niente, soprattutto chi li faceva, pani zeppi e poco lievitati, pagnottone salate e grigiastre, brutte anche da vedere. Se non c'è scelta ogni tanto proponi anche cose meno buone. 
Per un certo tempo in negozio abbiamo venduto, solo una volta alla settimana, per la difficoltà di procurarselo, il pane di Pelago, anzi di Diacceto.
Diacceto: perché si vede che in inverno ci fa un freddo boia. Avevamo trovato un fornitore che passava da Diacceto il martedì e ci faceva il piacere di caricare il sacco e portarcelo quando di pomeriggio tornava in città.
Direte voi: non siete mica lontani dalla Consuma. No, ma quando qualche volta bisognava andare a prendere il pane perché c'era stato qualche disguido andava via tutta la mattinata.
Un paio di giorni fa Mauro ha portato a casa due pezzi di pane fresco: uno tutto integrale, un integralone zeppo e poco interessante e un altro pezzo che ho messo in bocca e ho avuto una sorpresa. Il gusto era del pane di Pelago! Ogni boccone mi riportava lì, ma non c'era, come nelle madeleines di Proust, il gusto delle cose perdute o dell'infanzia. Perché il pane di Pelago aveva, per me, il sapore maturo di un cibo legato al lavoro e a tanti problemi concreti che riguardavano il negozio ma anche la mia vita privata e ora, non so se sia una fortuna, sono alle mie spalle. Per tanto tempo, dopo aver chiuso il negozio, è stato come se avessi chiuso una porta e fossi andata avanti senza guardarmi indietro; le persone e le cose legate al negozio si erano perse nella nebbia ed era un pochino come aver perso una parte di me. Ora penso che sia arrivato il tempo di riprendere in mano quel passato che mi appartiene e che posso guardare con tanto affetto e con soddisfazione.