Passaggio in India

Ho in casa tanti libri che ho letto tanto tempo fa. Sono convinta di  ricordarmeli, di possederli in qualche modo, ma non è vero. O almeno non è più vero, era vero anni fa; ora, se provo a dire di che parlano, a rientrare nella storia, mi sembra di rovistare in un ripostiglio abbandonato dove le memorie riposte sono state mangiate dalla polvere e dal tempo. E' rimasta solo una struttura fragile che si disfa quando tento di osservarla. Fino a poco tempo fa pensavo di avere una memoria infallibile, memoria dei libri, delle canzoni, delle cose imparate e accadute a scuola, di ciò che era accaduto nella vita, poi mi sono accorta che avevo dimenticato tantissime cose di cui, all'epoca, mi pareva di avere il pieno possesso, come la trigonometria, studiata al liceo. Questa cosa mi sgomenta, perché mi rendo conto che non posso fidarmi completamente di me stessa. Per mettere rimedio a questa perdita ogni tanto  rileggo uno di questi libri quasi dimenticati e provo un gran piacere come se fosse una nuova lettura: certamente lo è, abbiamo tutti sperimentato che le cose ci sembrano nuove perché intanto noi stessi siamo cambiati, non siamo più quella persona che lesse lo stesso libro molti anni fa. Ho ripreso in mano "Passaggio in India", di Edward Morgan Foster. Ecco cosa scrive a pagina 7 riferendosi al cielo dell'India, sopra la città di Chandrapore.

Il cielo regola tutto- non soltanto i climi e le stagioni, ma anche il momento che la terra deve essere bella. Da sola lei può far poco, appena qualche debole erompere di fiori. Ma quando il cielo lo decide, la gloria può erompere nei bazar di Chandrapore o una benedizione passare da orizzonte a orizzonte. Questo il cielo può fare perché è forte e così enorme. La forza gli viene dal sole, che gliela infonde ogni giorno: l'immensità della terra prostrata. Nessuna montagna frastaglia quella curva. Per miglia e miglia la terra è piana, si solleva un poco, è nuovamente piana. Quell'infinita distesa è interrotta solo a sud, dove un ammasso di pugni e dita balza fuori dal suolo. Quei pugni e quelle dita sono i monti Marabar, che contengono le straordinarie grotte.

Il cielo, o la luce. La luce crea il mondo nuovo ogni giorno e se lo decide può far bello il luogo più infimo. 

La storia si svolge nei primi anni del secolo scorso. La signora Moore arriva nella città di Chandrapore insieme con Adela Quested. Sono entrambe inglesi, e Adela conosce già il figlio della signora Moore, magistrato della città, e ha compiuto il viaggio per incontrarlo  e forse sposarlo, ma anche per conoscere l'India. 
Non è facile conoscere l'India; gli inglesi che la dominano e la governano ci vivono, ma la rifiutano. Subito nelle prime pagine Foster descrive la città di Chandrapore.

Più rasentata che bagnata dal Gange, si trascina per circa due miglia lungo la riva e a stento la si riconosce dai detriti che il fiume deposita con tanta abbondanza. Tutto ciò che lo sguardo incontra è così fatiscente, così squallido, che quando scendono le acque del fiume Gange ci si aspetterebbe di vederle travolgere quell'incrostazione nella terra. Le case crollano, la gente annega ed è lasciata imputridire, ma il profilo generale della città sussiste, qua gonfiandosi, qua ritraendosi, come un'infima ma indistruttibile forma di vita.

Gli inglesi arrivano in India e diventano velocemente angloindiani. Si tratta di un processo indotto da due cose che accerchiano il nuovo arrivato: una è effettivamente l'India e la sua identità sfuggente e mutevole, fatta del clima, del territorio e delle persone; l'altra è la comunità angloindiana che accoglie l'ospite solo in cambio di un'identificazione incondizionata, altrimenti si è fuori, reietti e rifiutati, in un paese tutto sommato estraneo.

La signora Moore appena arrivata conosce per caso il dottor Aziz, medico indiano musulmano che ha studiato in Inghilterra.  Lo conosce di notte, in una moschea, dove lui si è fermato per riposare e lei invece ci è arrivata imprudentemente, da sola, allontanandosi da un noioso spettacolo teatrale allestito dalla comunità angloindiana. Da questo incontro casuale ha inizio la vicenda. Adela desidera conoscere l'India, e per questo deve conoscere gli indiani. Il suo promesso fidanzato è irritato e infastidito da questo desiderio, che considera il capriccio di una nuova arrivata, ma lo asseconda, chiamando ad aiutarlo il signor Fielding, l'insegnante dell'istituto governativo. 
Ci sarà una gita alle grotte dei monti Marabar, organizzata e offerta dal dottor Aziz. Durante la gita Adela, rimasta sola all'interno di una grotta, sarà molestata, o crederà di essere stata molestata, e accuserà il dottor Aziz. Ci sarà un processo, ma alla fine Adela ritirerà le accuse e il dottor Aziz sarà liberato. Questa la storia in brevissimo. Ma si sa, le storie sono solo strutture, scheletri, e ciò che le rende belle, come per le persone, è tutto il resto, muscoli e carne e legamenti e la pelle sopra, il suo colore e la morbidezza, e il luccicore e il colore degli occhi e dei capelli che rendono unico l'individuo.  
Edward Morgan Foster, lo scrittore, nacque a Londra nel 1879 da una governante di origini modeste e da un architetto che morì prima che il bambino compisse un anno. Edward crebbe in una famiglia fatta solo di donne, parenti e amiche della mamma, con la quale stabilì un rapporto affettuoso e molto forte che lo influenzò tutta la vita. Mi ricorda un saggio di Freud su Leonardo Da Vinci,  mi pare, nel quale studiava il rapporto fra una forte figura materna e l'emergere, nel figlio maschio, dell'omosessualità. 
Foster fu effettivamente omosessuale, anche se gli ci volle molto tempo per accettarlo, e la sua scrittura è sensibile, delicata nel raccontare i pensieri dei personaggi e la loro mutevolezza. Niente è rapido come il pensiero, nella nostra esperienza, e niente cambia con tanta rapidità, un momento si può pensare una cosa e un momento dopo il contrario, e comportarsi di conseguenza. 
Foster racconta questo, i pensieri, e lo fa a volte con una punta di acrimonia,  a volte con distacco. I pensieri delle sue figure femminili sono esaminati senza pietà, salvo quelli della signora Moore. I dialoghi esprimono un conflitto permanente, che mi è familiare. Come mai, quando ho sentito questo tipo di cose? mi sono chiesta. Non ci è voluto tanto per ricordarlo. Per esempio, già quando ero bambina, il rapporto fra bambini di città e bambini di campagna, o anche adulti di città e adulti di campagna. Le persone di campagna parlavano male, una specie di dialetto, in genere erano meno educate, ma soprattutto meno disinvolte, meno moderne, impacciate dall'essere quello che erano, campagnoli, e si sentivano a disagio in presenza di gente di città, ma desideravano piacere ed essere accolti e accettati. Le persone di città si sentivano un pò superiori, ma sapevano che si trattava di una posizione sempre da conquistare, e certe volte manifestavano magnanimità  nei confronti dei campagnoli, più spesso disprezzo o indifferenza.
Oppure: gente del sud e gente del nord. O, a scuola, bambini ricchi e bambini poveri. Qualcuno sa di che parlo? Ma sì! E anche ora quanti conflitti, espressi e inespressi, covano come fuochi sempre pronti a divampare nella polvere della nostra società umana. Ora abbiamo anche il conflitto fra autoctoni ed emigrati, oppure fra cristiani e musulmani...Questo "Passaggio in India" serve a comprendere i conflitti, a vederli dentro di sé.
Virginia Woolf apparteneva al gruppo di intellettuali amici di Foster e dice di lui: "La sua ammirevole capacità d'osservazione lo serve troppo bene.. se fosse meno scrupoloso, meno sensibile alle molteplici facce di ogni questione, potrebbe arrivare con forza maggiore ad un risultato preciso."
In questo libro però Foster raggiunge il risultato in pieno. Racconta l'eterna disputa fra inglesi dominatori e indiani dominati, racconta il rapporto fra Adela e il quasi fidanzato Ronny, che finirà per disfarsi completamente, racconta della signora Moore che scivola verso la morte, racconta del mite e gentile dottor Aziz, racconta dell'onestà e della libertà del signor Fielding, l'unico inglese che sta dalla parte degli indiani. E racconta delle grotte Marabar e della loro eco.

Ci sono echi raffinatissimi in India; c'è il sussurro intorno alla cupola di Bijapur, ci sono le lunghe compatte frasi che a Mandu viaggiano attraverso l'aria e tornano indenni a chi le ha suscitate. Ma l'eco in una grotta Marabar è del tutto indistinta. A qualunque cosa si dica risponde lo stesso rumore monotono, e vibra su e giù per le pareti finché il soffitto non lo assorbe. Bum, è il suono, fin dove l'alfabeto umano può renderlo, o bu-um, o u-bum, completamente ottuso. Speranza, gentilezza, soffiarsi il naso, una scarpa che scricchiola, tutto fa "Bum". E se molte persone parlano insieme, comincia un boato di suoni incalzanti, da eco nasce eco e la grotta è tutta piena di un serpente composto di tanti serpentelli che si torcono ognuno per suo conto.

La signora Moore, al chiuso della grotta completamente buia salvo un fiammifero acceso per un attimo, si sente soffocare per il lezzo delle altre persone e prova sgomento per l'eco.

La folla e il lezzo poteva dimenticarli, ma l'eco, stava cominciando a minare la sua presa sulla vita in chissà quale indescrivibile modo.
"Il pathos, la pietà, il coraggio... esistono, ma sono identici, tale e quale il sudiciume. Tutto esiste, niente ha valore." 
Se in quel luogo avesse proferito un'infamia o recitato versi sublimi, il commento sarebbe stato lo stesso: "u-bum". 
Se uno avesse parlato le lingue degli angeli o chiesto grazia per tutta l'infelicità e l'incomprensione del mondo, passata presente e futura, forse il risultato sarebbe stato lo stesso, il serpente sarebbe disceso per poi tornare al soffitto...nessuno avrebbe potuto rendere romantico il Marabar, perché spogliava l'infinito e l'eterno della loro immensità, l'unico attributo capace di adattarli al genere umano.

La signora Moore pensa queste cose, e si spaventa, poi pensa anche di essere vecchia e stanca e che forse sta per ammalarsi. 

Ma d'improvviso, sulla soglia della sua mente, apparve la Religione, il povero piccolo cristianesimo ciarliero, e lei seppe che tutte le sue divine parole si riducevano a "Bu-um". Allora si sentì atterrita su un'estensione più vasta; l'universo, sempre incomprensibile al suo intelletto, non offriva riposo alla sua anima, l'inquietudine degli ultimi mesi prese infine una forma precisa e lei si rese conto che non voleva scrivere ai suoi figli, non voleva comunicare con nessuno, nemmeno con Dio. Perse interesse a tutto e le parole gentili che aveva rivolto al dottor Aziz non le parvero più sue, ma dell'aria. 

Credo che sia difficile trovare una descrizione migliore dell'inizio, subitaneo e sconvolgente, di una depressione, che nasce sempre da un pensiero.