la mia amica Fiorella Iori, ovvero, la ragazza di Cecina che andò a vivere a Milano
Il 24 agosto, il giorno del terremoto, se ne è andata la mia amica Fiorella. La notizia me l'ha data la Paola, che vive a Milano ed era per le vacanze qui dalla sua mamma. Se la Paola non me l'avesse detto io non l'avrei saputo, perché il contatto con la Fiorella era la Fiorella e ormai non sentivo suo marito da anni, ne avevo notizie attraverso lei, mentre suo figlio Lorenzo l'ho visto solo da piccolissimo. Suo figlio si può vedere qui. E' un musicista.
La Fiorella viveva a Milano da tanti anni, ma era toscana, di Cecina, e aveva lì una casa di famiglia, dove si trovava quando si è sentita male e quasi subito pare sia entrata in coma, senza più risvegliarsi, fino a quando, una settimana dopo, se ne è andata. Aveva 67 anni, era in pensione, dopo aver insegnato per tanti anni. La Paola me l'ha detto pianino, con garbo, ma lo stesso sono rimasta sconvolta. L'idea di perdere la Fiorella e non saperlo neanche mi ha fatto un brutto effetto. Lorenzo ha detto alla Paola che non ci sarebbe stato un funerale, non sono credenti, o almeno che io ricordi non sono mai stati religiosi.
Per il mio babbo non ci fu un funerale religioso e neanche per la mia mamma. Non lo volevano. Per il babbo però ci fu una specie di cerimonia laica di saluto. Per la mia mamma ci trovammo, per caso, insieme tutte donne e tutte parenti da parte del nonno, davanti alla sua bara, e la salutammo chiacchierando e raccontando cose della sua vita, alcune delle quali non sapevo nemmeno io. Ridemmo anche molto e quelli vicino ci guardarono male. In ogni modo io odio i funerali, li trovo anonimi e freddi, utili solo per ritrovarsi fra persone che purtroppo non si vedono spesso, ma si vogliono bene. Di solito il sacerdote dice cose insipide o insensate, salvo eccezioni; cose che niente hanno a che vedere con la persona che se ne è andata e poco anche col grande mistero della vita e della morte. Capisco che deve essere complicato essere originali e empatici ogni volta con dei quasi perfetti estranei.
Un saluto in ogni modo ci vuole. Per me, è necessario. E' un congedo; anche se poi io penso, contro ogni ragione, che ci riincontreremo. E siccome non c'ero alla morte della mia amica, ed era improbabile che ci fossi, visto come è andata, lo faccio qui, di salutarla. So che mi dilungo, è il mio modo e non posso farci niente. Non voglio farci niente. E' il mio modo di tenere ancora un pò la Fiorella con me. Un'altra cosa per cui chiedo di avere pazienza è che racconterò un pò di me, per parlare della Fiorella devo passare da me. Come disse un'amica a uno psicologo: è un pò difficile spostarsi da qui, io sono il mio unico punto di osservazione.
Facevamo l'Università, ero al secondo anno e stavo in Via dei Serragli, di là d'Arno, come dicono a Firenze, in una vecchia casa molto fredda e abbastanza inospitale, se non per la Sandra, che stava in camera con me e che non conoscevo, prima. Era molto cara, la Sandra Terranova, e la saluto con affetto immutato. Veniva dal Valdarno. I miei e i suoi si conoscevano, il suo babbo, il dottor Terranova, l'avevo sentito nominare, in casa. La Sandra suonava la chitarra e cantava certe tristi canzoni di Claudio Lolli e certe altre, meno tristi, di Guccini.
Nei viaggi in treno sentiva dei ragazzini chiacchierare, con l'accento del posto.
Una ragazzina, una mattina si truccava con un piccolo specchio in mano e disse alla sua amica, riferendosi al ragazzo che avrebbe incontrato a Firenze e al colore che si stava mettendo sul viso "Ieri mi so' mess'i' verde, oggi mi mett'i' rosso. Gni garberò?"
Capisco: senza il sonoro non si apprezza a sufficienza.
Un altro giorno la Sandra sentì questo "Mi so' messa con Samuele. C'ha la vespa colla radio e l'adesivo di Pupo."
Nonostante la Sandra e la Vespa con la radio ero abbastanza triste. L'università non funzionava per me e mi sentivo come un naufrago. Forse avevo sentore del periodo terribile verso cui mi stavo, poco consapevolmente, avviando. La Paola, con cui avevo convissuto l'anno prima, con lei e altre amiche, intanto aveva trovato un'altra casa. L'aveva trovata tramite Enzo, il suo ragazzo di allora, che faceva l'Accademia d'Arte. Enzo studiava anche con una ragazza di Cecina, la Fiorella, che stava in una casa strana, perché era tappezzata di libri quasi in tutte le stanze. Un appartamento normale di una via normale e borghese di Firenze, fatta di casine a due piani, pieno di carta. Io e la Paola ci siamo sforzate di ricordare il nome della strada ma non c'è stato niente da fare. Invece mi ricordo il nome del proprietario, un professore dell'Università di Enrico, il fidanzato della Fiorella. Il professor Maestro. Ora Enrico mi dice che il professore aveva ereditato la casa dal padre, un anarchico e ebreo di Pisa che viveva in un'altra casa senza serratura. Doveva essere andata così: Enrico aveva sparso la voce che alla sua ragazza serviva un alloggio a Firenze e il professore aveva ricordato di avere quella casa piena di libri, che non poteva proporre quasi a nessuno. Finii per andarci anch'io, seguendo la Paola, come il naufrago che trova un approdo temporaneo. Per la Fiorella era l'anno finale dell'Accademia: il progetto era che avrebbe finito e poi lei e Enrico si sarebbero sposati e sarebbero andati a Milano, dove per lui c'era un buon lavoro. La Fiorella era figlia di gente abbastanza povera. Avrebbe voluto fare l'Accademia, ma non aveva potuto e aveva lavorato per qualche anno. Poi si era decisa a realizzare questo sogno e aveva vissuto a Firenze in casa di una signora anziana scambiando l'alloggio con la compagnia e qualche lavoro di pulizia. L'ultimo anno lo stava trascorrendo nella casa dei libri. Era sorridente e molto accogliente e bella, anche. Quanti tè intorno alla tavola di cucina, tè in foglie, di lunga preparazione. Cuccume teiere e pentolini e tante chiacchiere, di quelle che ti pare di non aver detto niente di consistente, eppure non te le dimentichi e ti fanno star bene. L'aria della casa era carica di polvere dei libri e di energia frizzante dei nuovi progetti di vita, non tanto miei, ma delle altre ragazze. Quel formicolio alla base della colonna vertebrale.
La casa aveva una particolarità curiosa, un'altra: la finestra del piccolo bagno dava su una corte interna piccolissima. Sotto c'era una pasticceria e quando si andava in bagno non c'erano né puzzi, né odori di detersivo, ma odore di vaniglia e di bombolone. Forse un misto fra puzzi e bombolone. Era una cosa del tutto spiazzante e non sgradevole.
I libri degli scaffali erano edizioni economiche, giornali, riviste e testi su cui studiare materie scientifiche. Al proprietario doveva risultare difficile separarsene, ma era una follia tenere una casa intera in quel modo e per quell'uso. Frugando trovai due libri che poi sono diventati libri della vita: "Il gruppo", di Mary Mac Carthy, e "Un americano alla corte di re Artù" di Mark Twain, dico solo che la notte che cominciai a leggere questo secondo non riuscivo a smettere di ridere. Se vi capita leggetelo. Di quei mesi ricordo solo che avrei voluto che non finissero più. Un tempo sospeso in cui potevo caricarmi delle forze degli altri e riposare.
...con la Fiorella e Enzo all'Accademia, a guardare la loro classe dipingere un nudo nelle vecchie stanze fresche.
Con la Fiorella e la Paola a cena intorno alla tavola di cucina a ridere insieme.
Con la Fiorella a parlare di ricette di cucina del mondo, venti anni prima di tutto il gran cucinare televisivo di oggi.
Con la Fiorella e la Paola a parlare di pillola anticoncezionale.
Con la Fiorella a parlare di arredamento bello e che costa poco. Con la Fiorella a parlare di sessualità.
Con la Fiorella e la Paola a ridere per le barzellette che allora mi piaceva raccontare, ma cominciavo a ridere prima della fine e facevo ridere tutti anche se non avevano capito come andava a finire. Si rideva anche di certi personaggi della famiglia di Cecina, uno fra tutti un nonno che quando andava a fare la pipì cercava l'ammennicolo nelle mutande e diceva "Un do' l'è andato? Eppure era qui.."
Con la Fiorella a parlare di Arte. Con la Fiorella a parlare di come si fa una litografia...Con la Fiorella a parlare di come tutti, all'Accademia, finissero per cercare di dipingere come il Farulli, l'insegnante, pittore toscano degli altiforni, famoso in quel periodo e molto amato dai suoi studenti.
La Fiorella aveva una voce dolce con un accento toscano del mare non così forte, un modo di battere la lingua contro i denti tutto suo, che rendeva le consonanti dentali più gentili, e una risata indimenticabile.
Poi la Fiorella si preparò ad andare a Milano e ci si disse addio, anzi arrivederci. La prima volta l'andai a trovare in una casa minima che avevano trovato vicino all'ospedale di Niguarda, che quando uscivi dal portone del palazzo rischiavi che un'ambulanza ti falciasse la gamba fino al ginocchio. Dormii nel sacco a pelo nel corridoio fra l'unica stanza e la cucina, con la sensazione di essere piccolissima in terra e la felicità di esser lì. Doveva essere il 25 aprile perché si andò in Piazza Duomo, di lontano vidi il presidente Pertini, mi emozionai, mi venne da piangere e cercai di non farmene accorgere.
Un'altra volta io e Mauro ( a quel punto c'era Mauro e le cose cominciavano a migliorare) si fu ospitati in un'altra casa, a Monza, e potemmo vedere le varie mostre dislocate in giro in città, a Milano, su Mirò.
E la corona di Ferro nella cattedrale di Monza, anche quell'oggetto mi emozionò parecchio, è un manufatto che parla di un'epoca lontana per me più distante di quella romana, sebbene più recente. Un oggetto barbaro. Milano porta tracce profonde dei barbari e dell'impero d'Oriente ed emoziona.
Mauro e io al Poldi Pezzoli e alla Galleria di Brera e al ritorno ne parlavamo con la Fiorella ed Enrico.
Una vacanza insieme a Cogne, in una piccola casa in affitto, dove la mattina si cucinava del porridge, che Enrico forse aveva imparato a mangiare in uno dei suoi viaggi di lavoro. Enrico faceva lunghi viaggi per lavoro, in posti davvero lontani, tipo l'Alaska, e raccontava di aver mangiato chele di granchio grosse come un braccio. Il porridge è molto salutare, ma non si riesce a non farlo appiccicare alla pentola e dopo puzzicchia di bruciato. Mangiavamo porridge, poi facevamo delle passeggiate lunghissime studiandole prima sulle cartine dei sentieri. Una volta andammo a Valnontey e di lì al rifugio Sella sul Gran Paradiso. Arrivati ci sedemmo ad un tavolo all'interno, ma quasi subito il gestore ci disse di alzarci, che preparavano per il pranzo. Gli chiedemmo per piacere di lasciarci stare lì, che tanto volevamo pranzare, e lui gentilmente ci lasciò fare e poi si fermò a chiacchierare. Ci suggerì di tornare a valle per un altra strada, il sentiero dell'Herbetet. All'andata avevamo fatto una certa fatica a salire, la Fiorella aveva dovuto fare diverse soste. Ci sono giorni che le prestazioni fisiche risultano penose, io in quel periodo avevo la cistite e mi dovevo fermare spesso per fare solo un goccino di pipì che bruciava come il fuoco, ma ripartimmo per l'Herbetet piuttosto baldanzosi. Ricordo che avevo le scarpe leggere da ginnastica. Per il sentiero trovammo altri che venivano dalla direzione opposta; chiedemmo com'era e questi, con aria severa, dissero come fosse niente che c'era un pezzo con la corda. Non mi pare che capimmo di che si trattava finché non si fu lì. Il sentiero era crollato e avevano messo un asse a traverso per un paio di metri e una corda alla parete per tenersi: si passava, ma non si doveva guardare di sotto, perché c'era un vero precipizio. Ora sarebbe stato chiuso il tratto, perché siamo diventati super garantisti, sembra che tutti abbiamo bisogno della balia, e anche molte persone sono pronte a portarti in tribunale se pisciando di fuori nel bagno di casa tua, scivolano sulla propria pipì.
Insomma: passammo tutti, anche Enrico, che qualche giorno prima era stato colto, su un altro sentiero molto più facile, da un improvviso attacco di vertigini. Si era fermato, aveva detto "Aspetta aspetta..." ed era scivolato a sedere con la schiena appiccicata alla parete e gli occhi chiusi, mentre davanti, cioè sul lato del sentiero, c'era un precipizio o almeno una discesa molto ripida e molto lunga. Ci volle un pò per ripartire. La strada dell'Herbetet si rivelò lunga e piena di sorprese, dopo il primo incontro niente più umani, ma qualche stambecco in lontananza, e ancora più lontano, camosci e poi tanti fischi molto forti che sembravano annunciare il nostro passaggio sulla via, ed erano, si capì poi, versi di allarme delle marmotte. Arrivammo a valle che era ora di cena. Un paio di giorni dopo il giro dell'Herbetet incontrammo il signore del rifugio Sella in paese, a Cogne. "Sono venuto dal medico, disse, perché non mi sento bene."
E come è venuto, chiedemmo noi, convinti che se stava male qualcuno l'avesse accompagnato con l'auto o un altro mezzo. "Ma a piedi, si capisce!" disse lui. Si era fatto un paio d'ore a scendere e si sarebbe rifatto un paio d'ore e mezzo a salire, e non stava tanto bene.
La vacanza a Cogne continuò con gli arcobaleni della cascate di Lillaz e certe storie del dopocena in cui la Fiorella raccontava che Enrico non poteva dormire in un letto che non fosse ben rifatto e capitava che si svegliasse di notte e svegliasse anche lei per aiutarlo a stendere bene lenzuola e coperte: "Tira Fiorella, tira!" Noi si rideva come matti e anche Enrico rideva. Quando rifaccio il letto ogni volta, anche se sono sola, dico "Tira Fiorella, tira!" e mi viene da ridere!
Enrico era un giovane uomo alto e dinoccolato che quando cominciava a ridere era difficile riuscisse a fermarsi. Per questa allegria congenita e l'accento toscano aveva a Milano un notevole successo. Ai milanesi pareva che bastasse sentire un toscano aprir bocca per ridere. Una sera eravamo a cena da dei loro amici, c'era anche Enzo, che aveva frequentato l'Accademia con la Fiorella.
Questa coppia di Milano ci aveva invitato tutti per il compleanno di Enrico. Era una coppia di Milano molto per modo di dire: lei forse marchigiana e lui, mi pare, valdostano. Lei piccola e tondina, potevi vedere la casalinga materna e accogliente che sarebbe presto diventata. Lui alto e ossuto, esponente tipico delle popolazioni di montagna; un bel ragazzo con una lunga faccia che cambiava poco espressione e somigliava a John Travolta della febbre del sabato sera, ma se gli immaginavi un cappellino in testa, somigliava anche ad uno di quei ciclisti che nelle interviste televisive dicevano "Ciao mamma..."
Lei si era tanto impegnata: per far festa ad Enrico aveva cucinato una specie di sformato con una verdura di stagione, che aveva un bellissimo aspetto gratinato e croccantino; ma quando infilò il coltello per tagliare emerse il liquido di cottura delle verdure, che per inesperienza non aveva scolato abbastanza. La crosta croccante fu sommersa da un brodino grigiastro. Lei impallidì e fece una faccia tale che Enrico, come colpito al cuore, cominciò a ridere, piano piano e poi senza riuscire a fermarsi; era seduto, se fosse stato in piedi sarebbe caduto dal ridere. Scivolava lungo sulla sedia e stava per sdraiarsi su pavimento e Enzo, a vedere lui che rideva, non resistette mezzo secondo e cominciò a ridere anche lui. Lei rimase per qualche attimo sconcertata, poi, poverina, si mise a piangere. Così c'era una persona che piangeva a dirotto, due che ridevano come matte e tre che erano molto imbarazzate e non sapevano bene che fare, a me e alla Fiorella ci si storceva la faccia per non ridere, ma eravamo anche in pena per la povera figliola. Finì bene, le lacrime asciugate, sia quelle vere che quelle dal ridere, e lo sformato mangiato. Era molto buono. Lo scrivo per Isabella, la ragazza di quella sera, che so che è passata di qui e magari ripassa e mi perdona.
La casa della Fiorella e di Enrico era una casa delle novità, anche considerando quella vicina all'ospedale di Niguarda, che era proprio piccola. Era CASA, piena di cose interessanti, ogni volta che ci andavo c'era una cosa nuova, una tenda ricavata da un mezzero indiano, certe ciotoline vietnamite per il tè, lavori della Fiorella iniziati da guardare e discutere, cibi nuovi da assaggiare...casa. Conosco persone che vivono in case totalmente anonime, quelle della Fiorella erano piene di lei, e di Enrico, calde e ricche di personalità, stimolanti. Rivedo Enrico che, con tutte le sue forze, cerca di spremere della pasta frolla cruda attraverso una siringa per fare dei biscotti. Una gran fatica, ma dopo li mangiammo per colazione. Erano biscottini bicolori dalla forma a rosetta che si ottiene appunto passando la pasta per una particolare bocchetta. L'aggeggio tipo "sac à poche" rimase nel mio immaginario per tanto tempo. Riconosco ora quanto è stata importante la loro amicizia per la mia formazione, non per gli aggeggi insoliti, ma per la curiosità, la sperimentazione, per il gusto di scoprire ogni genere di cose nuove, dal cibo in poi. A Milano c'era sempre qualcosa di bello da fare. Quando la nostra prima bambina aveva sette mesi ci portammo anche lei. Scendemmo dal treno alla stazione con lei nel marsupio e fece una cosa strana: si agitò e gridò eccitata e felice. Chissà che le era preso: c'è da pensare che certe attitudini si manifestino presto, lei è sempre stata una gran girellona e anche ora è a Glasgow. Le stazioni doveva trovarle eccitanti già allora.
In quei giorni andammo al Centro Botanico che era in Via dell'Orso. Per me era una specie di pellegrinaggio: era uscito quell'anno il primo numero di Gardenia (per chi non lo sa è una rivista di giardinaggio), e io non voglio farle pubblicità, ma se non li avessi prestati ne avrei tutti i numeri. Da Gardenia aveva saputo del Centro Botanico e insomma la Fiorella mi ci accompagnò in pellegrinaggio. Guardavo tutto con avidità, l'avidità di imparare a fare un giardino per bene e non a caso. Ero molto ignorante: comprai una bustina di semi di Papaver Rhoeas, convinta che fosse uno di quei papaveri giganti di cui avevo visto le foto sulla rivista, e invece dovevo ancora imparare che si trattava del nome del comune papavero dei campi, che nelle aiole strappo come erbaccia. E la Fiorella era con me. Conosceva Gabriella Gallerani, che fu la prima illustratrice a realizzare le copertine di Gardenia. Era una collega, la Fiorella all'inizio aveva trovato un lavoro noioso: faceva i disegni che illustravano i lavori a maglia per certi giornali di lavori cosiddetti femminili.
Durante una visita a Milano andammo ad un concerto di musica classica, un'altra volta a teatro, ad uno spettacolo con un giovane attore mai sentito nominare, di cui si disse che era bravo, chissà se avrebbe fatto fortuna? Era Tullio Solenghi!
Tornati a casa c'era sempre cibo buono e a volte sconosciuto da assaggiare: a noi capitò una volta la carne secca di renna, portata da Enrico da luoghi remoti. Ad una coppia di altri amici di Arezzo capitò di mangiare da loro quando Enrico aveva portato un intero salmone, penso che fosse affumicato, in aereo. Si prepararono al pranzo e aprirono la confezione. Loro due, gli aretini, sbavavano per l'acquolina in bocca, ma pare che ad un'estremità, (loro dissero "in un angolino") ci fosse un unico vermino. Enrico si alzò subito e ritirò il vassoio. Loro glielo presero dalle mani, ma no!, per un solo vermino, scartiamo quella parte e mangiamo il resto! Ma Enrico fu perentorio, non fosse mai che qualcuno si sentisse male!
I due aretini erano da poco sposati e tiravano piuttosto la cinghia; ancora parlano di quel salmone intero buttato nella spazzatura, bisognerebbe conoscerli per capire.
E' inevitabile che nella vita, abitando in città diverse e mettendo su famiglia, ci si allontani. Vedemmo Lorenzo piccolissimo a Castagneto Carducci, un'estate che Enrico e la Fiorella avevano preso in affitto una casina per star soli col nuovo arrivato. In fondo avrebbero potuto stare in casa coi loro genitori, i nonni, che abitavano non tanto lontano da lì, ma avevano scelto così. Stavano insieme, Enrico e la Fiorella, fin da bambini, da nove o dieci anni di età e il figlio era il terzo, fra loro, la novità da accogliere, da amalgamare, da fargli spazio.
Passò qualche anno e la Fiorella e la Paola fecero per me un lavoro da portare al tipografo per la pubblicità dell'Erba Salvia, il negozio di prodotti bio. Gratis, un regalo per me. Il tipografo, il signor Badiali, mi chiese chi aveva fatto quel lavoro. Glielo spiegai. Mi disse"Ringrazi le sue amiche. In particolare quella del disegno. Un lavoro così ben fatto qui l'avrebbe pagato due milioni. " Una cifra che non avrei potuto permettermi. Il bozzetto adesso è incorniciato in casa.
Ruzzolarono via altri anni e una volta che ero dalla Paola si decise di andare a trovare la Fiorella ed Enrico nella casa in cui abitavano già da tempo, che questa volta avevano comprato. Era in un paese della cintura milanese, ed era facile individuarla: scesi dal mezzo pubblico bastava alzare gli occhi sui palazzi davanti, quella del terrazzo verde d'angolo al quarto piano era casa loro. Terrazzo verde: è un eufemismo, perché il verde esplodeva fuori dal perimetro rigido del palazzo. "Il bosco del quarto piano". Non so se qualcuno ha letto un libro dei propri bambini "Clorofilla dal cielo blu". Una cosa del genere, o un'istallazione attuale stile Patrick Blanc. Gli abitanti dei piani più prossimi erano allarmati, quelli di sotto per la possibilità di avere infiltrazioni d'acqua e quelli di sopra per i rami che arrivavano fino a loro.
Fummo accolte, la Paola e io, nel terrazzo giungla pieno di piante e di fiori, che ovviamente io apprezzai moltissimo.
Ancora anni che ruzzolano e rividi la Fiorella, che ormai nel 2013 era in pensione, in occasione della presentazione del mio libro a Milano. Me la trovai davanti salendo in superficie in una stazione della metro. La Paola mi aveva annunciato una sorpresa, ma io, al solito, non avevo capito e feci una faccia stranita"Oh Fiorella! Che ci fai qui?"
Mi fece un immenso piacere. Lasciò a me e alla Paola due suoi dipinti di volti femminili e due biglietti da visita con disegnato un fiore; un giglio, il mio. Tornai a Milano dopo poco per un altro incontro di presentazione e lei venne anche lì. Considerai che una volta può capitare, ma la seconda era la dimostrazione concreta di affetto vero e di vero sostegno per il mio lavoro di scrittrice. Una presenza discreta, silenziosa, affettuosa, sincera. Dovette andar via prima della fine e ci salutammo in fretta. Mi dissi che appena possibile, appena avessi messo a posto una stanza che abbiamo per gli ospiti, le avrei detto di venire, se le andava, a trascorrere del tempo con noi. Immaginavo noi due in giro in giardino oppure sedute davanti alla stufa accesa, e Mauro che arriva e si siede anche lui, e forse Enrico, se fosse stato libero dai suoi viaggi. E poi magari in giro per i dintorni, a Cortona, a Chiusi, ad Arezzo, a vedere cose d'arte insolite e poco conosciute... Adesso non si può più, il tempo è finito. Non volevo far piagnistei, non erano nel suo stile. Solo dirle grazie per esserci stata, molte cose di me sono sue, o le ho cercate e ottenute grazie a lei. Gli amici, le relazioni, quando funzionano fanno questo, ci costruiscono e diventano parte di noi, anche se poi non ci si vede per tanto tempo. Un bacio, Fiorella.
La Fiorella viveva a Milano da tanti anni, ma era toscana, di Cecina, e aveva lì una casa di famiglia, dove si trovava quando si è sentita male e quasi subito pare sia entrata in coma, senza più risvegliarsi, fino a quando, una settimana dopo, se ne è andata. Aveva 67 anni, era in pensione, dopo aver insegnato per tanti anni. La Paola me l'ha detto pianino, con garbo, ma lo stesso sono rimasta sconvolta. L'idea di perdere la Fiorella e non saperlo neanche mi ha fatto un brutto effetto. Lorenzo ha detto alla Paola che non ci sarebbe stato un funerale, non sono credenti, o almeno che io ricordi non sono mai stati religiosi.
Per il mio babbo non ci fu un funerale religioso e neanche per la mia mamma. Non lo volevano. Per il babbo però ci fu una specie di cerimonia laica di saluto. Per la mia mamma ci trovammo, per caso, insieme tutte donne e tutte parenti da parte del nonno, davanti alla sua bara, e la salutammo chiacchierando e raccontando cose della sua vita, alcune delle quali non sapevo nemmeno io. Ridemmo anche molto e quelli vicino ci guardarono male. In ogni modo io odio i funerali, li trovo anonimi e freddi, utili solo per ritrovarsi fra persone che purtroppo non si vedono spesso, ma si vogliono bene. Di solito il sacerdote dice cose insipide o insensate, salvo eccezioni; cose che niente hanno a che vedere con la persona che se ne è andata e poco anche col grande mistero della vita e della morte. Capisco che deve essere complicato essere originali e empatici ogni volta con dei quasi perfetti estranei.
Un saluto in ogni modo ci vuole. Per me, è necessario. E' un congedo; anche se poi io penso, contro ogni ragione, che ci riincontreremo. E siccome non c'ero alla morte della mia amica, ed era improbabile che ci fossi, visto come è andata, lo faccio qui, di salutarla. So che mi dilungo, è il mio modo e non posso farci niente. Non voglio farci niente. E' il mio modo di tenere ancora un pò la Fiorella con me. Un'altra cosa per cui chiedo di avere pazienza è che racconterò un pò di me, per parlare della Fiorella devo passare da me. Come disse un'amica a uno psicologo: è un pò difficile spostarsi da qui, io sono il mio unico punto di osservazione.
Facevamo l'Università, ero al secondo anno e stavo in Via dei Serragli, di là d'Arno, come dicono a Firenze, in una vecchia casa molto fredda e abbastanza inospitale, se non per la Sandra, che stava in camera con me e che non conoscevo, prima. Era molto cara, la Sandra Terranova, e la saluto con affetto immutato. Veniva dal Valdarno. I miei e i suoi si conoscevano, il suo babbo, il dottor Terranova, l'avevo sentito nominare, in casa. La Sandra suonava la chitarra e cantava certe tristi canzoni di Claudio Lolli e certe altre, meno tristi, di Guccini.
Nei viaggi in treno sentiva dei ragazzini chiacchierare, con l'accento del posto.
Una ragazzina, una mattina si truccava con un piccolo specchio in mano e disse alla sua amica, riferendosi al ragazzo che avrebbe incontrato a Firenze e al colore che si stava mettendo sul viso "Ieri mi so' mess'i' verde, oggi mi mett'i' rosso. Gni garberò?"
Capisco: senza il sonoro non si apprezza a sufficienza.
Un altro giorno la Sandra sentì questo "Mi so' messa con Samuele. C'ha la vespa colla radio e l'adesivo di Pupo."
Nonostante la Sandra e la Vespa con la radio ero abbastanza triste. L'università non funzionava per me e mi sentivo come un naufrago. Forse avevo sentore del periodo terribile verso cui mi stavo, poco consapevolmente, avviando. La Paola, con cui avevo convissuto l'anno prima, con lei e altre amiche, intanto aveva trovato un'altra casa. L'aveva trovata tramite Enzo, il suo ragazzo di allora, che faceva l'Accademia d'Arte. Enzo studiava anche con una ragazza di Cecina, la Fiorella, che stava in una casa strana, perché era tappezzata di libri quasi in tutte le stanze. Un appartamento normale di una via normale e borghese di Firenze, fatta di casine a due piani, pieno di carta. Io e la Paola ci siamo sforzate di ricordare il nome della strada ma non c'è stato niente da fare. Invece mi ricordo il nome del proprietario, un professore dell'Università di Enrico, il fidanzato della Fiorella. Il professor Maestro. Ora Enrico mi dice che il professore aveva ereditato la casa dal padre, un anarchico e ebreo di Pisa che viveva in un'altra casa senza serratura. Doveva essere andata così: Enrico aveva sparso la voce che alla sua ragazza serviva un alloggio a Firenze e il professore aveva ricordato di avere quella casa piena di libri, che non poteva proporre quasi a nessuno. Finii per andarci anch'io, seguendo la Paola, come il naufrago che trova un approdo temporaneo. Per la Fiorella era l'anno finale dell'Accademia: il progetto era che avrebbe finito e poi lei e Enrico si sarebbero sposati e sarebbero andati a Milano, dove per lui c'era un buon lavoro. La Fiorella era figlia di gente abbastanza povera. Avrebbe voluto fare l'Accademia, ma non aveva potuto e aveva lavorato per qualche anno. Poi si era decisa a realizzare questo sogno e aveva vissuto a Firenze in casa di una signora anziana scambiando l'alloggio con la compagnia e qualche lavoro di pulizia. L'ultimo anno lo stava trascorrendo nella casa dei libri. Era sorridente e molto accogliente e bella, anche. Quanti tè intorno alla tavola di cucina, tè in foglie, di lunga preparazione. Cuccume teiere e pentolini e tante chiacchiere, di quelle che ti pare di non aver detto niente di consistente, eppure non te le dimentichi e ti fanno star bene. L'aria della casa era carica di polvere dei libri e di energia frizzante dei nuovi progetti di vita, non tanto miei, ma delle altre ragazze. Quel formicolio alla base della colonna vertebrale.
La casa aveva una particolarità curiosa, un'altra: la finestra del piccolo bagno dava su una corte interna piccolissima. Sotto c'era una pasticceria e quando si andava in bagno non c'erano né puzzi, né odori di detersivo, ma odore di vaniglia e di bombolone. Forse un misto fra puzzi e bombolone. Era una cosa del tutto spiazzante e non sgradevole.
I libri degli scaffali erano edizioni economiche, giornali, riviste e testi su cui studiare materie scientifiche. Al proprietario doveva risultare difficile separarsene, ma era una follia tenere una casa intera in quel modo e per quell'uso. Frugando trovai due libri che poi sono diventati libri della vita: "Il gruppo", di Mary Mac Carthy, e "Un americano alla corte di re Artù" di Mark Twain, dico solo che la notte che cominciai a leggere questo secondo non riuscivo a smettere di ridere. Se vi capita leggetelo. Di quei mesi ricordo solo che avrei voluto che non finissero più. Un tempo sospeso in cui potevo caricarmi delle forze degli altri e riposare.
...con la Fiorella e Enzo all'Accademia, a guardare la loro classe dipingere un nudo nelle vecchie stanze fresche.
Con la Fiorella e la Paola a cena intorno alla tavola di cucina a ridere insieme.
Con la Fiorella a parlare di ricette di cucina del mondo, venti anni prima di tutto il gran cucinare televisivo di oggi.
Con la Fiorella e la Paola a parlare di pillola anticoncezionale.
Con la Fiorella a parlare di arredamento bello e che costa poco. Con la Fiorella a parlare di sessualità.
Con la Fiorella e la Paola a ridere per le barzellette che allora mi piaceva raccontare, ma cominciavo a ridere prima della fine e facevo ridere tutti anche se non avevano capito come andava a finire. Si rideva anche di certi personaggi della famiglia di Cecina, uno fra tutti un nonno che quando andava a fare la pipì cercava l'ammennicolo nelle mutande e diceva "Un do' l'è andato? Eppure era qui.."
Con la Fiorella a parlare di Arte. Con la Fiorella a parlare di come si fa una litografia...Con la Fiorella a parlare di come tutti, all'Accademia, finissero per cercare di dipingere come il Farulli, l'insegnante, pittore toscano degli altiforni, famoso in quel periodo e molto amato dai suoi studenti.
Questo che a me non mi riesce di vedere, ma forse se ci cliccate sopra si vede, è un dipinto di Farulli |
Poi la Fiorella si preparò ad andare a Milano e ci si disse addio, anzi arrivederci. La prima volta l'andai a trovare in una casa minima che avevano trovato vicino all'ospedale di Niguarda, che quando uscivi dal portone del palazzo rischiavi che un'ambulanza ti falciasse la gamba fino al ginocchio. Dormii nel sacco a pelo nel corridoio fra l'unica stanza e la cucina, con la sensazione di essere piccolissima in terra e la felicità di esser lì. Doveva essere il 25 aprile perché si andò in Piazza Duomo, di lontano vidi il presidente Pertini, mi emozionai, mi venne da piangere e cercai di non farmene accorgere.
Un'altra volta io e Mauro ( a quel punto c'era Mauro e le cose cominciavano a migliorare) si fu ospitati in un'altra casa, a Monza, e potemmo vedere le varie mostre dislocate in giro in città, a Milano, su Mirò.
E la corona di Ferro nella cattedrale di Monza, anche quell'oggetto mi emozionò parecchio, è un manufatto che parla di un'epoca lontana per me più distante di quella romana, sebbene più recente. Un oggetto barbaro. Milano porta tracce profonde dei barbari e dell'impero d'Oriente ed emoziona.
Mauro e io al Poldi Pezzoli e alla Galleria di Brera e al ritorno ne parlavamo con la Fiorella ed Enrico.
Una vacanza insieme a Cogne, in una piccola casa in affitto, dove la mattina si cucinava del porridge, che Enrico forse aveva imparato a mangiare in uno dei suoi viaggi di lavoro. Enrico faceva lunghi viaggi per lavoro, in posti davvero lontani, tipo l'Alaska, e raccontava di aver mangiato chele di granchio grosse come un braccio. Il porridge è molto salutare, ma non si riesce a non farlo appiccicare alla pentola e dopo puzzicchia di bruciato. Mangiavamo porridge, poi facevamo delle passeggiate lunghissime studiandole prima sulle cartine dei sentieri. Una volta andammo a Valnontey e di lì al rifugio Sella sul Gran Paradiso. Arrivati ci sedemmo ad un tavolo all'interno, ma quasi subito il gestore ci disse di alzarci, che preparavano per il pranzo. Gli chiedemmo per piacere di lasciarci stare lì, che tanto volevamo pranzare, e lui gentilmente ci lasciò fare e poi si fermò a chiacchierare. Ci suggerì di tornare a valle per un altra strada, il sentiero dell'Herbetet. All'andata avevamo fatto una certa fatica a salire, la Fiorella aveva dovuto fare diverse soste. Ci sono giorni che le prestazioni fisiche risultano penose, io in quel periodo avevo la cistite e mi dovevo fermare spesso per fare solo un goccino di pipì che bruciava come il fuoco, ma ripartimmo per l'Herbetet piuttosto baldanzosi. Ricordo che avevo le scarpe leggere da ginnastica. Per il sentiero trovammo altri che venivano dalla direzione opposta; chiedemmo com'era e questi, con aria severa, dissero come fosse niente che c'era un pezzo con la corda. Non mi pare che capimmo di che si trattava finché non si fu lì. Il sentiero era crollato e avevano messo un asse a traverso per un paio di metri e una corda alla parete per tenersi: si passava, ma non si doveva guardare di sotto, perché c'era un vero precipizio. Ora sarebbe stato chiuso il tratto, perché siamo diventati super garantisti, sembra che tutti abbiamo bisogno della balia, e anche molte persone sono pronte a portarti in tribunale se pisciando di fuori nel bagno di casa tua, scivolano sulla propria pipì.
Insomma: passammo tutti, anche Enrico, che qualche giorno prima era stato colto, su un altro sentiero molto più facile, da un improvviso attacco di vertigini. Si era fermato, aveva detto "Aspetta aspetta..." ed era scivolato a sedere con la schiena appiccicata alla parete e gli occhi chiusi, mentre davanti, cioè sul lato del sentiero, c'era un precipizio o almeno una discesa molto ripida e molto lunga. Ci volle un pò per ripartire. La strada dell'Herbetet si rivelò lunga e piena di sorprese, dopo il primo incontro niente più umani, ma qualche stambecco in lontananza, e ancora più lontano, camosci e poi tanti fischi molto forti che sembravano annunciare il nostro passaggio sulla via, ed erano, si capì poi, versi di allarme delle marmotte. Arrivammo a valle che era ora di cena. Un paio di giorni dopo il giro dell'Herbetet incontrammo il signore del rifugio Sella in paese, a Cogne. "Sono venuto dal medico, disse, perché non mi sento bene."
E come è venuto, chiedemmo noi, convinti che se stava male qualcuno l'avesse accompagnato con l'auto o un altro mezzo. "Ma a piedi, si capisce!" disse lui. Si era fatto un paio d'ore a scendere e si sarebbe rifatto un paio d'ore e mezzo a salire, e non stava tanto bene.
La vacanza a Cogne continuò con gli arcobaleni della cascate di Lillaz e certe storie del dopocena in cui la Fiorella raccontava che Enrico non poteva dormire in un letto che non fosse ben rifatto e capitava che si svegliasse di notte e svegliasse anche lei per aiutarlo a stendere bene lenzuola e coperte: "Tira Fiorella, tira!" Noi si rideva come matti e anche Enrico rideva. Quando rifaccio il letto ogni volta, anche se sono sola, dico "Tira Fiorella, tira!" e mi viene da ridere!
Enrico era un giovane uomo alto e dinoccolato che quando cominciava a ridere era difficile riuscisse a fermarsi. Per questa allegria congenita e l'accento toscano aveva a Milano un notevole successo. Ai milanesi pareva che bastasse sentire un toscano aprir bocca per ridere. Una sera eravamo a cena da dei loro amici, c'era anche Enzo, che aveva frequentato l'Accademia con la Fiorella.
Questa coppia di Milano ci aveva invitato tutti per il compleanno di Enrico. Era una coppia di Milano molto per modo di dire: lei forse marchigiana e lui, mi pare, valdostano. Lei piccola e tondina, potevi vedere la casalinga materna e accogliente che sarebbe presto diventata. Lui alto e ossuto, esponente tipico delle popolazioni di montagna; un bel ragazzo con una lunga faccia che cambiava poco espressione e somigliava a John Travolta della febbre del sabato sera, ma se gli immaginavi un cappellino in testa, somigliava anche ad uno di quei ciclisti che nelle interviste televisive dicevano "Ciao mamma..."
Lei si era tanto impegnata: per far festa ad Enrico aveva cucinato una specie di sformato con una verdura di stagione, che aveva un bellissimo aspetto gratinato e croccantino; ma quando infilò il coltello per tagliare emerse il liquido di cottura delle verdure, che per inesperienza non aveva scolato abbastanza. La crosta croccante fu sommersa da un brodino grigiastro. Lei impallidì e fece una faccia tale che Enrico, come colpito al cuore, cominciò a ridere, piano piano e poi senza riuscire a fermarsi; era seduto, se fosse stato in piedi sarebbe caduto dal ridere. Scivolava lungo sulla sedia e stava per sdraiarsi su pavimento e Enzo, a vedere lui che rideva, non resistette mezzo secondo e cominciò a ridere anche lui. Lei rimase per qualche attimo sconcertata, poi, poverina, si mise a piangere. Così c'era una persona che piangeva a dirotto, due che ridevano come matte e tre che erano molto imbarazzate e non sapevano bene che fare, a me e alla Fiorella ci si storceva la faccia per non ridere, ma eravamo anche in pena per la povera figliola. Finì bene, le lacrime asciugate, sia quelle vere che quelle dal ridere, e lo sformato mangiato. Era molto buono. Lo scrivo per Isabella, la ragazza di quella sera, che so che è passata di qui e magari ripassa e mi perdona.
La casa della Fiorella e di Enrico era una casa delle novità, anche considerando quella vicina all'ospedale di Niguarda, che era proprio piccola. Era CASA, piena di cose interessanti, ogni volta che ci andavo c'era una cosa nuova, una tenda ricavata da un mezzero indiano, certe ciotoline vietnamite per il tè, lavori della Fiorella iniziati da guardare e discutere, cibi nuovi da assaggiare...casa. Conosco persone che vivono in case totalmente anonime, quelle della Fiorella erano piene di lei, e di Enrico, calde e ricche di personalità, stimolanti. Rivedo Enrico che, con tutte le sue forze, cerca di spremere della pasta frolla cruda attraverso una siringa per fare dei biscotti. Una gran fatica, ma dopo li mangiammo per colazione. Erano biscottini bicolori dalla forma a rosetta che si ottiene appunto passando la pasta per una particolare bocchetta. L'aggeggio tipo "sac à poche" rimase nel mio immaginario per tanto tempo. Riconosco ora quanto è stata importante la loro amicizia per la mia formazione, non per gli aggeggi insoliti, ma per la curiosità, la sperimentazione, per il gusto di scoprire ogni genere di cose nuove, dal cibo in poi. A Milano c'era sempre qualcosa di bello da fare. Quando la nostra prima bambina aveva sette mesi ci portammo anche lei. Scendemmo dal treno alla stazione con lei nel marsupio e fece una cosa strana: si agitò e gridò eccitata e felice. Chissà che le era preso: c'è da pensare che certe attitudini si manifestino presto, lei è sempre stata una gran girellona e anche ora è a Glasgow. Le stazioni doveva trovarle eccitanti già allora.
In quei giorni andammo al Centro Botanico che era in Via dell'Orso. Per me era una specie di pellegrinaggio: era uscito quell'anno il primo numero di Gardenia (per chi non lo sa è una rivista di giardinaggio), e io non voglio farle pubblicità, ma se non li avessi prestati ne avrei tutti i numeri. Da Gardenia aveva saputo del Centro Botanico e insomma la Fiorella mi ci accompagnò in pellegrinaggio. Guardavo tutto con avidità, l'avidità di imparare a fare un giardino per bene e non a caso. Ero molto ignorante: comprai una bustina di semi di Papaver Rhoeas, convinta che fosse uno di quei papaveri giganti di cui avevo visto le foto sulla rivista, e invece dovevo ancora imparare che si trattava del nome del comune papavero dei campi, che nelle aiole strappo come erbaccia. E la Fiorella era con me. Conosceva Gabriella Gallerani, che fu la prima illustratrice a realizzare le copertine di Gardenia. Era una collega, la Fiorella all'inizio aveva trovato un lavoro noioso: faceva i disegni che illustravano i lavori a maglia per certi giornali di lavori cosiddetti femminili.
Durante una visita a Milano andammo ad un concerto di musica classica, un'altra volta a teatro, ad uno spettacolo con un giovane attore mai sentito nominare, di cui si disse che era bravo, chissà se avrebbe fatto fortuna? Era Tullio Solenghi!
Tornati a casa c'era sempre cibo buono e a volte sconosciuto da assaggiare: a noi capitò una volta la carne secca di renna, portata da Enrico da luoghi remoti. Ad una coppia di altri amici di Arezzo capitò di mangiare da loro quando Enrico aveva portato un intero salmone, penso che fosse affumicato, in aereo. Si prepararono al pranzo e aprirono la confezione. Loro due, gli aretini, sbavavano per l'acquolina in bocca, ma pare che ad un'estremità, (loro dissero "in un angolino") ci fosse un unico vermino. Enrico si alzò subito e ritirò il vassoio. Loro glielo presero dalle mani, ma no!, per un solo vermino, scartiamo quella parte e mangiamo il resto! Ma Enrico fu perentorio, non fosse mai che qualcuno si sentisse male!
I due aretini erano da poco sposati e tiravano piuttosto la cinghia; ancora parlano di quel salmone intero buttato nella spazzatura, bisognerebbe conoscerli per capire.
E' inevitabile che nella vita, abitando in città diverse e mettendo su famiglia, ci si allontani. Vedemmo Lorenzo piccolissimo a Castagneto Carducci, un'estate che Enrico e la Fiorella avevano preso in affitto una casina per star soli col nuovo arrivato. In fondo avrebbero potuto stare in casa coi loro genitori, i nonni, che abitavano non tanto lontano da lì, ma avevano scelto così. Stavano insieme, Enrico e la Fiorella, fin da bambini, da nove o dieci anni di età e il figlio era il terzo, fra loro, la novità da accogliere, da amalgamare, da fargli spazio.
Passò qualche anno e la Fiorella e la Paola fecero per me un lavoro da portare al tipografo per la pubblicità dell'Erba Salvia, il negozio di prodotti bio. Gratis, un regalo per me. Il tipografo, il signor Badiali, mi chiese chi aveva fatto quel lavoro. Glielo spiegai. Mi disse"Ringrazi le sue amiche. In particolare quella del disegno. Un lavoro così ben fatto qui l'avrebbe pagato due milioni. " Una cifra che non avrei potuto permettermi. Il bozzetto adesso è incorniciato in casa.
Ruzzolarono via altri anni e una volta che ero dalla Paola si decise di andare a trovare la Fiorella ed Enrico nella casa in cui abitavano già da tempo, che questa volta avevano comprato. Era in un paese della cintura milanese, ed era facile individuarla: scesi dal mezzo pubblico bastava alzare gli occhi sui palazzi davanti, quella del terrazzo verde d'angolo al quarto piano era casa loro. Terrazzo verde: è un eufemismo, perché il verde esplodeva fuori dal perimetro rigido del palazzo. "Il bosco del quarto piano". Non so se qualcuno ha letto un libro dei propri bambini "Clorofilla dal cielo blu". Una cosa del genere, o un'istallazione attuale stile Patrick Blanc. Gli abitanti dei piani più prossimi erano allarmati, quelli di sotto per la possibilità di avere infiltrazioni d'acqua e quelli di sopra per i rami che arrivavano fino a loro.
Fummo accolte, la Paola e io, nel terrazzo giungla pieno di piante e di fiori, che ovviamente io apprezzai moltissimo.
Ancora anni che ruzzolano e rividi la Fiorella, che ormai nel 2013 era in pensione, in occasione della presentazione del mio libro a Milano. Me la trovai davanti salendo in superficie in una stazione della metro. La Paola mi aveva annunciato una sorpresa, ma io, al solito, non avevo capito e feci una faccia stranita"Oh Fiorella! Che ci fai qui?"
Mi fece un immenso piacere. Lasciò a me e alla Paola due suoi dipinti di volti femminili e due biglietti da visita con disegnato un fiore; un giglio, il mio. Tornai a Milano dopo poco per un altro incontro di presentazione e lei venne anche lì. Considerai che una volta può capitare, ma la seconda era la dimostrazione concreta di affetto vero e di vero sostegno per il mio lavoro di scrittrice. Una presenza discreta, silenziosa, affettuosa, sincera. Dovette andar via prima della fine e ci salutammo in fretta. Mi dissi che appena possibile, appena avessi messo a posto una stanza che abbiamo per gli ospiti, le avrei detto di venire, se le andava, a trascorrere del tempo con noi. Immaginavo noi due in giro in giardino oppure sedute davanti alla stufa accesa, e Mauro che arriva e si siede anche lui, e forse Enrico, se fosse stato libero dai suoi viaggi. E poi magari in giro per i dintorni, a Cortona, a Chiusi, ad Arezzo, a vedere cose d'arte insolite e poco conosciute... Adesso non si può più, il tempo è finito. Non volevo far piagnistei, non erano nel suo stile. Solo dirle grazie per esserci stata, molte cose di me sono sue, o le ho cercate e ottenute grazie a lei. Gli amici, le relazioni, quando funzionano fanno questo, ci costruiscono e diventano parte di noi, anche se poi non ci si vede per tanto tempo. Un bacio, Fiorella.