Nomadland

Isola di Anglesey vista da Newborough beach

 Mia figlia grande vive in Galles da qualche anno. E' arrivata lì per  il lavoro, a Conwy, paesino sul mare d'Irlanda famoso per essere località turistica, per il suo castello, e ora anche per certe trasmissioni che si possono seguire sul canale 56, in cui Drew Pritchard, antiquario, racconta il suo lavoro di compratore/rivenditore di mobili e oggetti vari che trova dai robivecchi e nelle case bellissime, anche dimore nobiliari, della campagna inglese. Ogni tanto fa vedere scorci di Conwy. Mia figlia ha vissuto lì molto volentieri, ma adesso se ne deve andare. All'inizio della chiusura Covid aveva cambiato di nuovo lavoro e in questo lungo periodo ha sempre lavorato da casa, o da remoto, come dicono.  L'azienda neozelandese richiede la sua presenza presso la sede inglese e lei con grande rammarico deve spostarsi ancora in una piccola città nei pressi della capitale. 

E' tanto che non torna a trovarci. Parliamo su whatsapp. Diceva che ora guadagna bene, il doppio, rispetto a quando ha iniziato. Il primo lavoro vero legato alla sua laurea era stato a Torino, poi si è spostata a Conwy, ora va a abitare vicino a Londra e è come se qui in Italia andasse a stare a Milano. Solo l'affitto le costerà quasi il doppio che a Conwy per una casa più piccola, e il costo della vita in generale è più alto. Così uno stipendio che dovrebbe consentirle di campare in modo "agiato", come si diceva una volta, le servirà per vivere e basta. Consideriamo anche che le amicizie che aveva stretto in Galles sarà difficile poterle conservare.

"Mi sento un criceto nella ruota del capitalismo" ha detto con quest'espressione piuttosto colorata e significativa. In poche parole amare e divertenti ho percepito tante cose, la lontananza da casa e la conseguente solitudine, la forza necessaria a "stare" in una condizione anche favorevole, che però costringe a competere continuamente per rimanerci, e nonostante tutto, l'insicurezza del futuro. Nell'ultimo colloquio ha detto che si è aperta in azienda una posizione da team manager, da capo, in sostanza, e che proverà a fare il colloquio. 

"Tutti nel mio team proveranno a farlo, ma se tutti vogliamo fare il capo poi non rimane nessuno a cui farlo." Ha detto. Certe volte esce con delle espressioni comiche. Ha detto anche che non le andava molto, ma è come essere in un flusso e incontrare un ostacolo, se non si prova a superarlo in qualche modo si resta indietro e forse si soccombe o si finisce in un limbo lavorativo. 

 Proprio in questi giorni un'amica mi ha regalato Nomadland, il libro di Jessica Bruder da cui è stato tratto il film che ha vinto l'Oscar. Benché non sia un romanzo lo leggo appassionatamente. Mi sono chiesta perché mi senta così coinvolta e la risposta è facile: perché parla anche di me. E' un libro di inchiesta. Il titolo dell'inchiesta era "dopo la pensione". Racconta di come per moltissimi americani, intorno a nove milioni, la vita sia cambiata, soprattutto le condizioni economiche, in modo tale da non potersi più permettere di vivere in una casa. Qualcuno si è trovato per strada dopo una separazione, o in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008/2009 ha perso il lavoro con cui pensava di andare serenamente in pensione, o si è ammalato e sapete che negli Stati Uniti moltissime prestazioni sanitarie si pagano e sono carissime, quindi magari guarisci, ma sei sul lastrico. Oppure ha continuato a lavorare, ma per uno stipendio più basso che non consentiva più di mantenere una casa. Oppure ha perso i risparmi sempre in seguito alla crisi, per aver investito in titoli spazzatura. Molte di queste persone appartengono, o meglio appartenevano, a un ceto medio alto, con un buon livello culturale, a volte ottimo. Si sono accorti per tempo di quello che gli stava accadendo e prima di rovinarsi hanno fatto una scelta difficile ma che significava ancora vivere, e sopravvivere al proprio declino economico. Dice Jessica Bruder: moltissimi americani sono più preoccupati di sopravvivere alle proprie risorse economiche che di morire.

Sono andati a vivere in un furgone, o in una roulotte, o in un camper e hanno cominciato a seguire i flussi delle attività stagionali, nell'agricoltura, nel terziario, dovunque ci fosse lavoro. Adattandosi a lavori anche molto peggiori e molto più faticosi di quello che avevano in precedenza e con molte meno forme di tutela. Il libro racconta alcune di queste storie, perché solo le storie personali possono permetterci di capire, mentre di fronte a statistiche e percentuali rimaniamo piuttosto freddi. Molti di questi lavoratori sono anziani, ma veramente anziani. Lavorano dopo i sessant'anni e oltre i settanta, se sono in buona salute anche sugli ottant'anni. Poi per ora nel libro non si parla dell'ultimo passaggio, ma sono arrivata solo a pag. 207. Lavorano nei campeggi, alla raccolta delle barbabietole, nei magazzini Amazon, nelle fiere, sagre, mercati stagionali. Jessica Bruder riporta un messaggio ricevuto su facebook da uno di questi "workcamper".

I workamper sono moderni viaggiatori mobili che accettano lavori temporanei in giro per l'America in cambio di un posto per roulotte gratuito, generalmente con allacci all'energia elettrica, all'acqua e alle fognature, e magari uno stipendio. Si potrebbe pensare che sia un fenomeno moderno, ma noi workamper discendiamo da una tradizione antichissima. Abbiamo seguito le legioni romane, affilando spade e riparando armature. Abbiamo vagato nelle nuove città americane. aggiustando orologi e macchine, riparando utensili da cucina, costruendo muri di pietra per tre centesimi al metro e tutto il sidro che riuscivamo a bere. Abbiamo seguito la migrazione a Ovest nei nostri carri coperti, con i nostri attrezzi e la nostra maestria, riparando qualsiasi cosa fosse rotta, aiutando a spianare la terra, costruire i tetti delle capanne, arare i campi in cambio di un pasto e qualche spicciolo, spostandoci poi al lavoro successivo. I nostri antenati sono i calderai ambulanti. Abbiamo trasformato i carri coperti in confortevoli pulmann e roulotte mansardate. Oggi, in buona parte pensionati, abbiamo aggiunto al nostro repertorio le competenze di una vita di lavoro. Possiamo aiutarti a gestire il tuo negozio, sistemare una parte di casa tua, guidare i tuoi camion e muletti, confezionare la tua merce per le spedizioni, riparare i tuoi macchinari, sistemare i tuoi computer, raccogliere le tue barbabietole, abbellire i tuoi giardini e ripulire i  tuoi bagni. Siamo i tecno calderai. 

 Questo signore ha un talento di narratore e una buona cultura. Come tanti che hanno perso il lavoro o si sono trovati in grave difficoltà tenta di orientarsi riflettendo sulla nuova esperienza e provando a raccontarsi, raccontare sé stesso e soprattutto a sé stesso, alla luce di queste riflessioni. E' questo che capita, perdendo lavoro o casa, o peggio tutti e due, ci si guarda allo specchio e non si sa più chi siamo. La nostra identità, che per tanti è definita da quello che possediamo, il ruolo sociale, la disponibilità economica, è sparita o divenuta incerta. Ci si trova per strada con gente con cui finora non avevamo niente da spartire. Bisogna trovare qualcosa di comune, creare nuovi legami e nuove motivazioni, un'altra strada da percorrere, un altro orizzonte. 

Mi ricorda il lungo periodo di lavori piuttosto precari che ho vissuto dal 2001 al 2012. Per un po' ho fatto anche i catering. I catering somigliano tanto, come composizione umana, ai "tecno calderai". 

Le prime volte restavo quasi frastornata dalla varietà umana, c'erano all'epoca parecchi stranieri, rumeni, albanesi, pochi indiani e bengalesi. Le ragazze rumene erano grandi lavoratrici e molto ambiziose. Poi c'era il tizio italiano che aveva  aperto, e chiuso quasi subito, per inesperienza o superficialità, un ristorante, l'altro che aveva un mutuo da pagare e lo stipendio non gli bastava, la casalinga che lavorava solo col catering il fine settimana, la nonna di settant'anni che doveva ripagare i debiti del marito che giocava a carte di soldi...Il sabato e la domenica questa ditta faceva partire anche sette camion, camioncini e furgoni al giorno, ognuno con la sua truppa di personale assortito, per altrettante cerimonie: matrimoni, battesimi, comunioni. Arrivati alla sede la mattina o nel primo pomeriggio, si dovevano caricare casse piene di cibo, piatti, bicchieri, posate, tovaglie, strumenti di cucina, vino, bevande...Non importava se eri maschio o femmina, grande o piccolo, anziano o giovane, robusto o mingherlino, ti arrivava in braccio una cassa e la issavi sul pianale del camion, o stavi dentro a sistemarle impilate, che non cadessero, e così fino a completare il carico. Certe sudate! Mi ricordo un napoletano bello robusto che ogni volta riusciva a eclissarsi durante i lavori pesanti e ricompariva solo per aiutare a cucinare. Poi di corsa tutti stipati nelle auto e all'arrivo alla "location", già si chiamava così, tutti di nuovo a scaricare e poi a svolgere uno dei tanti lavori necessari per preparare il cibo per gli ospiti. Una banda assortita di improvvisati aiuto cuochi e camerieri. A volte si cucinava in cantine sudicie su fornelli da campeggio, a volte in cucine attrezzate. Ogni squadra aveva il suo capo: la ragazza rumena intraprendente che aveva imparato il menù dell'estate e lo ripeteva come una cuoca d'esperienza, ma non avrebbe saputo farne uno diverso; o lo chef in pensione che aveva avuto un ristorante suo e ora arrotondava con queste prestazioni "volanti". Ho visto cucinare la tagliata su un fornello a gas con una padella d'acciaio, e portare a cottura un riso parboiled che non riusciva a rimanere in ebollizione in una grande pentola bassa su un fornello troppo piccolo; ho fritto roba surgelata in una padella enorme davanti a gente vestita da cerimonia, riempiendo coni di carta da macellaio come a una fiera; io con un grembiule bianco e un cappellino, nessuno mi avrebbe riconosciuto, perché pochi guardano in faccia il personale di servizio. Ho lavato piatti con l'acqua fredda di un tubo di gomma e non c'era niente che poteva funzionare come lavandino. Una sera  lavavamo i piatti di ritorno dai tavoli in questo modo, e il capo squadra era Piero, un cuoco in pensione, un uomo simpatico e sempre sorridente, una gioia lavorarci insieme. A un certo punto saltò la corrente e restammo al buio. Qualcuno riuscì a riattivarla e venne a chiedere se avevamo toccato qualcosa e fatto saltare il salvavita. Piero disse, guardando noi che sciacquavamo le stoviglie: "Dalla lavastoviglie non dipende sicuro!" 

Una volta l'"uscita" durò 19 ore. Lavorammo nei cortili di Palazzo Strozzi a Firenze, dove una ditta famosa di abbigliamento per bambini festeggiava il quarantennale dell'attività. I tavoli per gli ospiti erano vestiti con tovaglie che scendevano a terra e addobbati con composizioni di marshmallow in colori pastello, mentre noi nel cortile accanto, invisibili come sempre, eravamo attaccati all'acqua con un tubo per annaffiare e scaricavamo in una griglia delle fognature a terra. Quella volta tornai a casa alle cinque di mattina del giorno dopo. Erano cose che facevo una volta alla settimana, e pensavo che erano eccezionali, che avevo delle alternative, che non era proprio il mio lavoro, che non era la mia vita. Ma sentivo che mancava solo un passo perché lo diventasse, che avrei potuto scivolarci dentro e rimanerci presa. La paga era sette euro l'ora, in contanti, in nero, di più per i capi squadra. Non c'erano coperture, bisognava non cadere, non tagliarsi, non farsi male.

Ho messo una foto del mare davanti alla costa dell'isola di Anglesey, vicino a Conwy. Per chi è curioso ho messo anche un link.

E per finire saluto chi passa di qui e Sari in modo speciale. Sono tornata.