A Negrar
Mauro che aspetta |
molto belle da vedere.
A pranzo mangiavo al bar dell'ospedale, che ha una parete tutta vetri che si affaccia sul giardino. Sembrava di esserci dentro. Il giardino è molto piacevole, fatto di tante aiole grandi con alberi diversi: un gingko, una sophora, un tiglio, un acero di monte, dei cedri. L'erba era mantenuta verde anche in quei giorni di siccità estrema, e c'erano delle macchie di colore fatte di begonie e impatiens. Niente di troppo originale, ma fresco e curato. Il primo giorno ci siamo seduti lì e subito è arrivata una sensazione di calma e di pace. Dagli alberi. Quel giardino dell'ospedale di Negrar è prezioso. Aiuta a staccare, a prendere distanza dalla preoccupazione e dai cattivi pensieri. In certi punti convivono olivi e ortensie e passando dai corridoi vetrati si vede il verde. Nei giorni che sono stata lì ho passato qualche ora là fuori a leggere o solo a respirare, che c'era molto più fresco che altrove. Alle due mentre aspettavamo di entrare in reparto le storie erano le stesse, raccontate da madri o sorelle o compagni delle donne che erano state operate: diagnosi arrivate dopo anni di dolore e errori, illustri primari che negano il problema, suggeriscono di cambiare marito o compagno quando c'è dolore nei rapporti intimi. O dicono di parlare con uno psicologo.
Poi si entra e ci sono i racconti delle varie donne, a quella hanno tolto tutto, e lei, che ha già due bambini, è contenta e spera, da ora in poi, di non soffrire più. Non vede l'ora di tornare a casa e poter archiviare il problema, se sarà fortunata. A quell'altra hanno tolto un pezzo di intestino: tornerà a casa col sacchettino e dovrà tenerlo per un bel po'. Mia figlia mi chiede di comprarle le ciabatte nuove, le sue si sono macchiate perchè quando si è alzata in piedi ha avuto delle perdite così forti che l'assorbente non è bastato. Vuole anche delle altre mutande, larghe, larghissime, perché non può sentire stringere sulle ferite dei fori della laparoscopia e la pancia è molto gonfia. Sembra serena, dice che le infermiere e le OSS sono tutte tanto gentili e questo mi fa sentire meglio. Esco e vado dai cinesi. I cinesi hanno un capannone lì vicino, accanto al supermercato. Dai cinesi non ci vado mai, ma in questo posto nuovo non saprei come fare e sono a piedi. Hanno fatto il negozio proprio accanto al supermercato e all'ospedale, come un pescatore che mette la rete in un posto di passo, si siede e aspetta, certo che acchiapperà moltissimi pesci. Dentro il capannone c'è di tutto, ed è brutto e per niente accogliente, brutta la luce e la roba messa alla rinfusa, ma trovo subito quello che serve, e non sono prodotti cinesi, ma italiani. Compro anche un cappello che sembra di paglia, ma è poliestere, per ripararmi la testa dal sole mentre vado e vengo per i vigneti. Il cinese alla cassa è grasso e indifferente, e dice al cliente prima di me "quattoldici eulo e qualanta" come nei film comici. Ma non è un film. Vado a comprare qualcosa da mangiare al supermercato, che è anonimo, ma in confronto al capannone dei cinesi sembra caldo e accogliente. Per oggi non posso fare più niente e torno in albergo.