Narrazioni false, vere, storie magiche, furti di identità.

 Trovate in rete delle interviste fatte a Priel Korenfeld, israeliano venuto da giovane in Italia per vedere come si vive dall'altra parte, cioè fuori da Israele. Ha partecipato, in Friuli, a un'esperienza di convivenza con altri giovani che provenivano fra l'altro da Afganisthan e Palestina. Poi è rimasto.  Qui trovate una sua intervista e qui un'altra. Meglio ascoltare prima la seconda. Il suo punto di vista è interessante e parla italiano benissimo. Dice che quella fra Palestinesi e israeliani è anche una questione di narrazione. Ci si racconta una storia e poi ci si impegna a crederci. La storia a cui credono gli israeliani è che dio, il loro dio che li vuole al comando di tutti i popoli della terra che esistono per servirli, ha dato loro una terra specifica, la Palestina. Fiore Dumbres qui spiega anche questo. Invece di seguito da Wikipedia:

La Bibbia contiene tre definizioni geografiche della Terra d'Israele. La prima, che si trova nella Genesi 15:18-21, è vaga: descrive un ampio territorio "dal Nilo all'Eufrate", costituito da tutto l'attuale Israele, i territori palestinesi, il Libano, gran parte della Siria, la Giordania e parte dell'Egitto

 Questa è l'estensione massima contenuta nella Bibbia, in altri punti si cita un'estensione minore, ma questa più grande è quella che Netaniahu vuole ottenere ora a forza di bombe, cioè anche Siria Libano Giordania e parte dell'Egitto. Poi chissà.. La Bibbia però dice anche questo:

In Ezechiele 47:22-23 viene espressamente descritto come questi territori debbano essere condivisi con gli stranieri che vivono all’interno di questi territori.

«22: Ne spartirete a sorte dei lotti d'eredità fra di voi e gli stranieri che soggiorneranno in mezzo a voi, i quali avranno generato dei figli fra di voi. Questi saranno per voi come nativi tra i figli d'Israele; tireranno a sorte con voi la loro parte d'eredità in mezzo alle tribù d'Israele.

23: Nella tribù nella quale lo straniero soggiorna, là gli darete la sua parte»

Quindi, dopo secoli di assenza, gli israeliani moderni vogliono tornare padroni di tutto questo territorio assegnato loro da Dio, però assoluti, senza considerare cosa dice Ezechiele. La chiesa cattolica, nonostante che guardasse gli ebrei con diffidenza almeno fino al concilio Vaticano II, che promosse importanti innovazioni, fino al 1986, anno dell'incontro fra il rabbino Toaf e Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma, ha creduto per intero a questa storia, forse perché faceva più paura l'Islam che Israele, senza considerare che anche mille anni prima di Gesù e durante tutto il tempo in mezzo fra allora e ora, cioè secoli, sono vissute in Palestina altre popolazioni arabe e non. A questo racconto abbiamo creduto anche  noi. Chi ci ha mai detto a scuola che la Palestina e il medio oriente avevano una storia, monumenti, opere d'arte, canzoni, poeti, mistici? Chi ci ha letto le poesie di Rumi che parlano di Dio? Nessuno. Da bambina per me l'arabo era quello brutto delle carte del mercante in fiera, in pratica. Da ragazza mi ricordo di aver letto "Ballata levantina" di Fausta Cialente, che mi piacque tanto e mi pare  raccontasse quei luoghi. Lettura lontanissima.

Dunque noi, per la maggior parte, abbiamo creduto che gli ebrei "tornassero" a casa loro, in Palestina, dove non c'era nessuno, sempre secondo questa narrazione, solo 4 pastori cenciosi; perché Dio aveva assegnato loro quella terra. Tutto questo ribattezzando il territorio col nome di Israele; però non li abbiamo presi  troppo sul serio, soprattutto la faccenda dell'assegnazione divina. Abbiamo il Vaticano in casa e sappiamo bene come tutte queste storie bibliche non vadano prese tanto sul serio. Ho frequentato la chiesa negli anni della mia formazione e nessuno diceva di dar retta alle storie sanguinarie della Bibbia, è tutto da prendere come metafora, l'esercito del faraone inghiottito dal mare che si richiude è la nostra superbia, i nemici di Israele sono i nostri peccati e roba del genere. D'altra parte tutto ciò che si racconta di ammazzamenti e stragi nel vecchio testamento è esattamente il contrario di ciò che annuncia Gesù, a parte forse "non sono venuto a portare la pace ma la spada" e la storia dei mercanti nel tempio, e anche se si fanno acrobazie per spiegarlo resta comunque piuttosto misterioso. Per il resto il messaggio di Gesù è per tutti gli uomini, nessuno escluso e nessuno può dichiararsi superiore agli altri, né singolo individuo né popolo, e noi cattolici siamo cristiani. Invece in Israele la maggior parte della popolazione prende la bibbia, antico testamento, il nuovo non lo riconoscono, alla lettera, o fa finta perché gli conviene? Non lo sappiamo, non conosciamo Israele abbastanza bene. Sicuramente quelli che ora governano dicono di credere a questa storia. Oltre che al dio denaro, come si vede ora dai progetti immobiliari su Gaza. 

I palestinesi raccontano e credono a una storia diversa, che però non richiede un atto di fede nè evocazioni di divinità perché è una serie di fatti. Comincia nel 1948 e anche prima, ma si contentano di farla iniziare nel 48, quando altri decisero che le loro terre fossero assegnate al "popolo senza terra" senza chiedere a loro che le abitavano se fossero d'accordo. Cacciandoli e uccidendoli senza mai riconoscere il torto che avevano subito. Priel Korenfeld dice che è inutile andare tanto lontano nel tempo, che per fare la pace bisogna lavorare sul presente lasciando indietro le rivendicazioni. Ma su questo non so se sono d'accordo. Quando alla radice di una storia c'è un'ingiustizia così grossa è sbagliato non tenerne conto e non cercare di sanarla. Riemergerà e porterà discordia.

Il mio babbo nel dopoguerra stava dalla parte di Israele e a un certo punto cambiò idea. Mi sono chiesta perché e ho un po' ricostruito. Prima di tutto c'era da parte della comunità internazionale il bisogno di compensare, per quanto fosse impossibile, gli ebrei per l'Olocausto, assegnando loro una terra dove poter vivere in pace e sicurezza. Pensate come fosse importante questa esigenza dopo anni in cui erano stati cercati casa per casa in tutta Europa, rastrellati e uccisi in modo definito industriale dagli stessi nazisti. Sicuramente il babbo era particolarmente sensibile a questo dopo l'esperienza nel campo di lavoro di Wiezendorf e poi di Amburgo. Quando ne era uscito pesava 38 kg. Il primo Israele aveva le caratteristiche di uno stato socialista: proprietà comuni, i Kibbutzim dove si lavorava in forme cooperative e via di seguito, sembrava una realizzazione concreta dell'utopia socialista e questo aveva convinto il babbo che era di famiglia socialista e lo rimase, obtorto collo, fino alla fine, anche se fu socialista di Nenni e poi di un'atra corrente che non ricordo più.  Mi ricordo però quando cambiò idea. 

Avevo 12 anni nel 1967 quando ci fu la Guerra dei 6 giorni.   A 12 anni si è piccoli e di guerre e relazioni fra stati non si capisce niente, però si capisce se il nostro babbo si appassiona a qualcosa, e il babbo parlava con entusiasmo di Israele e del mitico comandante Moshe Dayan, con la benda sull'occhio, il quale raccontava di certi interventi ad opera divina che avevano aiutato Israele a sconfiggere i nemici.  La guerra durò dal 5 al 10 giugno. Da wikipedia:  Al termine del conflitto Israele aveva conquistato la penisola del Sinai e la striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. L'esito della guerra, la condizione giuridica dei territori occupati ed il relativo problema dei rifugiati influenzano pesantemente ancora oggi la situazione geopolitica del Medio Oriente.[3

 Il Dio della Bibbia continuava a agire nella storia per far vincere il suo popolo a distanza di migliaia di anni e mio padre ne era impressionato. Come vedere un miracolo in diretta. Poi qualcosa, l'efferatezza dei comportamenti, le notizie che arrivavano da parte palestinese, gli fece cambiare del tutto idea. Ci rimase male, cambiare idea e riconoscere che si è sbagliato e in che misura è sempre difficile, ma lo fece e non tornò più indietro. Smise di credere a una narrazione magica e tornò coi piedi per terra.

Ieri ho sentito un intellettuale francese, storico o antropologo, dire che la Palestina è stata nei secoli una terra "plurielle", plurale. Mai solo ebrea, anzi per secoli gli ebrei assenti, abitata da tante etnie diverse. Suad Amiry nel suo "Damasco" dice che un uomo andava a cercarsi moglie in villaggi anche lontani, di un'altra regione. Se fate una ricerca superficiale in internet trovate che in Palestina vivono i palestinesi. Ovvio, ma questo non significa che descriva la realtà. Significa piuttosto che questa è l'opinione ufficiale, la visione da lontano, occidentale, che fa di ogni erba un fascio. In realtà in Palestina ci sono diverse etnie, in Cisgiordania sono presenti famiglie di beduini, che sono in prevalenza pastori, ma anche libanesi, siriani, e i palestinesi stessi sono discendenti di cananei e altri fra cui i filistei della Bibbia, Filistin, da cui la terra prende il nome. Questa gente viveva tutta insieme senza troppi conflitti. Non c'è da illudersi, i conflitti fanno parte della vita umana, ma se restano sotto una certa soglia sono normali e accettabili. A un certo punto i palestinesi si sono riconosciuti come popolo. E come è successo? 

Mi viene in mente una lezione del professor Valentino Nizzo, etruscologo che insegna all'università di Napoli e è stato direttore del Museo di Villa Giulia. Che c'entrano ora gli Etruschi? si chiederà chi legge. Aspetta che ci arrivo. Il prof. Nizzo durante il Covid, invece di chiudere il museo dove lavorava allora, ha pensato di aprirlo virtualmente e accompagnare in visita le persone che stavano chiuse per la pandemia. In una serie di conferenze ha fatto scoprire la cultura etrusca ragionando anche sul presente. Parla della grande domanda: da dove arrivano gli Etruschi? Da fuori, dalla Lidia come sostiene un antico storico, o sono un popolo autoctono?  E dice che è la domanda a essere sbagliata, bisogna invece chiedersi: come si sono formati gli Etruschi? Per arrivare a capire che i popoli si formano anche per influenza delle colture con cui vengono in contatto, in quel caso le altre locali, umbri, latini, e via via i numerosi popoli italici incontrati spostandosi sulla penisola. E greci, fenici, magari sardi, attraverso il mare. Confrontandosi in modo pacifico, scambiando merci e racconti e anche scontrandosi con altri gruppi etnici impararono chi erano, videro le differenze e individuarono se stessi, i Rasna. 

Penso che questo discorso possa applicarsi anche alla Palestina, da una terra plurale, fatta di tanta gente diversa che conviveva, comincia a identificarsi fortemente sotto il dominio israeliano. Ora più che mai forse è identificata come popolo, non sarebbe avvenuto senza un avversario così ostile. Un nemico forte è capace di indurre la formazione di un'identità contrapposta molto forte; è questione di fisica, una azione ne provoca una uguale di intensità ma contraria. Un avversario che si è installato e ha rubato perfino cibo e tradizioni. Ma anche l'avversario cambia nel contatto/contrasto. 

Da "ogni mattina a Jenin" di Susan Abulhawa: 

"Guardò in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e cioè che le la loro storia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei palestinesi. Quegli uomini arrivati dall'Europa non conoscevano né l'hummus, né i falafel, ma li proclamarono "piatti tradizionali ebraici". Rivendicarono le ville di Qatamon come "antiche dimore ebraiche". Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi che vivevano su quella terra, coltivandola e amandola. Arrivarono da nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come "antichi manufatti ebraici". Vennero a Giaffa e trovarono arance grosse come angurie e dissero: "Guardate! Gli ebrei sono famosi per le loro arance!" Ma quelle arance erano frutto di secoli e secoli in cui i contadini palestinesi avevano perfezionato l'arte di coltivare gli agrumi. " - capitolo 40

"Ora l'antico borgo dalle mura fatte di segreti e gli alberi piantati nel sangue sembravano inanimati. Sulle colline attorno a Gerusalemme e in Cisgiordania una serie infinita di insediamenti - con i loro leccati giardini verdi e i tetti rossi che si metastatizzavano nelle vallate come un eritema sulla terra, stridevano crudemente con le fatiscenti case arabe sottostanti, dove facevano defluire le proprie acque di scarico e spesso scaricavano la spazzatura. Edifici alti, troppo alti, svettavano sulla città. Palazzi per soli ebrei, insediamenti fortificati, alberghi spigolosi e arbusti importati sorvegliavano come guardie carcerarie le originarie porte e fineste a volta degli edifici in muratura, dalle cui arcate proviene il termine architettura. Ma nonostante l'affannosa "giudaizzazione" di Gerusalemme la città vecchia sembrava fredda. Perfino crUdele. E a conti fatti, immeritevole." - capitolo 43