le maestre di campagna

Mentre preparo il pranzo, in televisione, su rai tre, c'è una trasmissione che si intitola "il tempo e la storia" e io la ascolto, più che guardarla, perché intanto lavoro. E' il tipo di fruizione del mezzo televisivo delle casalinghe, fra il rumore degli elettrodomestici e i passaggi da una stanza all'altra. 
Uno di questi giorni si parlava dell'alfabetizzazione e del ruolo delle maestre negli anni del secondo dopoguerra. Mi ha fatto tanta tenerezza: io le ricordo, queste maestre, in famiglia ne avevamo due, che ormai non ci sono più. La zia Giovanna di cui ho parlato qui, e la zia Anna.  La zia Anna era una zia molto carina, cugina della mamma, figlia di una sorella del nonno che era stata violentata e uccisa durante il passaggio del fronte, nel luglio del 1944, dai soldati tedeschi. Il suo nome e la storia compaiono nei verbali redatti dall'esercito inglese e in alcuni libri. 
La zia Anna somigliava tanto al suo babbo, lo zio Adalindo, che aveva anche da vecchio gli occhi chiarissimi e un bel sorriso. Si era risposato e abitava con la seconda moglie in un posto bellissimo e isolato dell'Arezzo vecchia, la piazzetta San Niccolò. Adalindo: un vero nome dell'800.
Lo zio Adalindo me lo ricordo come un uomo semplice e buono, mentre i suoi figlioli avevano tutti e tre una certa superbia, e la convinzione che la vita dovesse rendere loro qualcosa che gli spettava, ma gli era stato tolto alla nascita. La mamma diceva: "Hanno una gran spocchia, ma che si credono di essere? In fondo il loro babbo vendeva le saracche!"
Le saracche sono le sarde sotto sale. La mamma non diceva mai saracche se non quando parlava di questo zio, che trattava come un bottegaio, ma in realtà era un commerciante all'ingrosso molto benestante. E qui si entra nel campo delle dinamiche degli affetti, degli odi e delle invidie familiari, che lasciano le tracce fino a me, tracce che colgo, ma mi è difficile interpretare. Per fortuna.
La zia Anna compare nella mia memoria una mattina nella casa dove stavamo quando ero piccola, in via dell'Agania. Avevamo una camera degli ospiti, che la mamma chiamava la camerina verde, per via della coperta del letto, a righine verdi e bianche. Non ci aveva dormito mai nessuno, ma una mattina la mamma, in silenzio e in punta di piedi, mi portò a salutare questa zia che non si era ancora svegliata. Doveva essere lì dalla sera prima, arrivata dopo che io mi ero addormentata. Una sorpresa trovarla lì! Una specie di magia: la camerina verde era sempre vuota e all'improvviso c'era una zia dentro!
La zia Anna aveva questa storia tragica della madre di cui non parlava mai e un'altra storia, di un fidanzato medico che aveva promesso di sposarla a suo fratello che partiva per le Americhe. Poi però aveva sposato la figlia di un altro dottore, che gli aveva lasciato la condotta. Il matrimonio doveva essere compreso nell'accordo. Il medico anziano, lasciando la condotta, si era premurato di sistemare insieme la figliola. 
La zia Anna, che era tanto bellina e aveva studiato, ci rimase malissimo e forse anche la sua reputazione ne fu intaccata. Non parlava mai neanche di questo fidanzato. Da lì in poi continuò a fare la maestra e diventò una donna indipendente: a modo suo, perché, pur lavorando e mantenendosi, per certi versi faceva una vita molto libera, per altri continuava a sognare di fare un bel matrimonio.
La zia, come tante maestrine giovani, nei programmi di alfabetizzazione statale, veniva mandata a insegnare in posti sperduti delle campagne e delle montagne toscane. Scuoline dove c'erano pochi bambini, in classi miste,  alcuni di loro raggiungevano la scuola camminando per ore fra i boschi e i campi. Diceva che arrivavano in classe con in tasca uova di uccello prese in un nido che visitavano lungo il tragitto, o fiori, o ghiande, o piccoli animali. Qualcuno portava qualcosa da mangiare per la maestra, mandato dalla mamma. La maestra andava curata, tenuta di conto. 
Ogni tanto ricordava questi posti dove, per lavorarci,  doveva prenderci una camera, perché era impossibile ogni giorno fare avanti e indietro con la città.  Erano stanze in case private, con una stufa a legna per cucinarsi qualcosa e il bagno forse non esisteva, se non come latrina. Nominava soprattutto, come posto sperduto, San Gianni. Mi sono sempre ricordata questo nome e qualche tempo fa ho capito dov'è. 
Una donna è sparita, forse uccisa, nel paese di Sestino, che è un'estrema propaggine della Toscana incuneata nell'Emilia Romagna, fra i monti dell'Appennino. San Gianni è una frazione di Sestino, l'ho scoperto perché ad un certo punto in un telegiornale, nominarono il suo cimitero pensando di aver trovato lì i resti di questa famosa Guerrina. Ecco dov'era San Gianni! Un viaggio lunghissimo in corriera, a quei tempi, e anche ora, quando la corriera fa tutte le fermate. 
La zia faceva la maestra senza grande passione, come un mestiere dignitoso, che si deve fare bene, ma i bambini non le piacevano tanto. Negli anni in cui c'era in Toscana Don Milani, la maestra Maria Maltoni all'Impruneta, Mario Lodi al nord e nella scuola un gran fermento di novità ed esperienze, la zia Anna faceva questo mestiere come un'impiegata un pochino annoiata, ma ligia, perché era da lì che venivano le sue risorse per vivere. 
Quando ero grande e andavo al liceo, un paio di mattine all'anno andavo a scuola con lei, che allora insegnava a Ponte Buriano. Si era molto avvicinata, ma a lavorare in città non ci è mai arrivata. Mi piaceva tantissimo andare nella sua scuola, avevo letto tanti libri e facevo ripetizione in un istituto di suore, il Thevenin di Arezzo, ed ero entusiasta. Aveva in classe bambini di campagna, figli di contadini, alcuni di famiglie agiate, che erano quelli che lei preferiva: di solito parlavano meglio, quindi scrivevano anche meglio, erano più educati, e le facevano fare meno fatica. Ce n'era uno che invece era figlio di gente talmente povera che ancora nel 1972/73 lo facevano lavorare, era l'unico bambino lavoratore: tutti i giorni andava a "parare le pecore", parlava una lingua poco comprensibile, frequentando soprattutto animali, e aveva le piccole mani di bimbo callose, dure e segnate di sporco vecchio come un adulto che lavora duramente. Diciamo che si chiamasse Domenico. Se c'era qualcuno che aveva bisogno di un piccolo aiuto speciale,  che era la cosa che io ero venuta a fare, era lui. Mi sedetti accanto. La zia  disse che tirassero fuori l'album da disegno e disegnassero qualcosa, a piacere. Il bambino sorrideva imbarazzato. Gli chiesi cosa voleva disegnare e lui aprì il suo libro di scuola e mi indicò un vaso di ceramica greco antico, con il disegno di una caccia. Era un obbiettivo irraggiungibile. Sei capace di rifarlo? Gli chiesi. 
Lui disse di sì e cominciò a fare la sagoma del vaso, ma gli venne tutta storta. L'aiutai a raddrizzare un pò e poi gli proposi di disegnarci sopra, invece di quelle cose difficili, qualcosa che conosceva e che gli piaceva molto; potevamo fare delle righe su quel vaso, e metterci dentro delle cose in fila. Gli si illuminarono gli occhi :"Le saregie!" disse tutto contento. Le saregie sono le ciliegie.
Disegnò una fila di ciuffetti di ciliegie mentre io lo aiutavo a stare nei bordi e a colorare perbene. In ogni spazio disegnò cose che conosceva, il vaso alla fine rappresentava la sua vita. Il disegno era  bello e gli aveva dato soddisfazione, lo rimirava tutto felice e anche i suoi compagni dovettero convenire che se l'era cavata bene. Come succede nei gruppi umani il bambino più debole veniva messo alla berlina e preso in giro, ( la tesi della mia figliola piccola tratta anche di questa cosa quando parla dell'Ombra collettiva). Il bimbo era talmente abituato al suo ruolo di capro espiatorio, che ne rideva e lo accettava, meglio così che essere ignorato;  ma quel giorno il piccolo pastore aveva trovato un forte alleato, che ero io, la nipote della maestra in persona. 
La zia guardò il disegno un pò scocciata e infastidita, ma le scappò un mezzo sorriso "Oggi vuol dire che si attaccherà il disegno di Domenico. Ma per ottenere questo risultato tutti i giorni ci vorrebbe una persona persa dietro a lui." disse rivolta a me. Chissà che vita ha avuto il piccolo Domenico.
Un'altra volta la zia chiese ai bambini di cantare una canzoncina che avevano imparato in casa, una canzone popolare che gli piaceva e che si ricordavano. Una bella bambina, figlia di un artigiano che si avviava a diventare un piccolo industriale, alzò la mano. La zia le sorrise: quella bimba era una delle sue preferite. Cominciò a cantare con una bella vocina limpida e intonata.

"Lassù per le contrade, 
di qua e di là si sente, 
cantare allegramente, 
è lo spazzacamin.

S'affaccia alla finestra, 
una bella signorina, 
con voce graziosina, 
chiama lo spazzacamin. 

Prima lo fa entrare, 
e poi lo fa sedere , 
gli da mangiare e bere, 
allo spazzacamin.." 

La zia sorrideva e ascoltava soddisfatta. 
La bimba continuò a cantare.

"E dopo aver mangiato, 
mangiato e ben bevuto, 
gli fa vedere il buco, 
il buco del camin"

La zia all'improvviso impallidì e disse, tutta agitata, che bastava così, tossì imbarazzata e cercò un'altra cosa da fare. La bambina ci rimase male, per lei era solo una canzoncina imparata nella cucina di casa dalla nonna, e ci rimasi male anch'io. Ero un pò tonta.
Dopo capii che la canzoncina, come tante da noi, conteneva riferimenti più o meno espliciti ad un rapporto sessuale, infatti, per chi non avesse capito le premesse, continua così "E dopo nove mesi, gli è nato un bel bambino, assomigliava tutto, allo spazzacamin"
La zia era preoccupata che qualche famiglia, o magari il direttore didattico in persona, le venisse a chiedere conto dell'episodio. Spesso, mentre lavoro, canticchio la canzoncina dello spazzacamino e mi ricordo la vocina melodiosa e precisa della bimba.
Nella trasmissione di rai tre "Il Tempo e la storia" hanno fatto vedere un filmato realizzato nella classe di una città del nord dove, negli anni sessanta e settanta, c'erano tanti bambini figli di immigrati. La voce della maestra, (il viso non si vede) chiede ai bambini, mostrando una mela, di dire il nome del frutto: "In italiano si chiama mela, e in siciliano, Bruna, come si dice?" "Pumo" dice la bambina. 
E in calabrese? "Milu"
E in piemontese? "Pomme" pronunciato come in francese. 
E via così, una classe di trenta bimbi italiani, di trenta lingue diverse e trenta modi di dire mela. Figuriamoci il resto del vocabolario! 
Dice più quel filmato di un trattato di antropologia. Anche in classe della zia Anna si parlava il dialetto e le ciliegie di Domenico erano saregie.
E ora ci risiamo, solo che invece di rimescolare l'Italia si rimescola il mondo intero e in certe classi ci sono cinesi, rumeni, pakistani, indiani, africani...oltre a qualche bambino italiano.
La zia Anna faceva il suo mestiere non così volentieri, ci era stata costretta, perché il suo sogno era stato quello, in gioventù, di essere la moglie del dottore. Per le ragazze era così, il bel matrimonio era il primo obbiettivo, e allora la maestra forse l'avrebbe fatta, ma senza tanto impegno, o il marito ricco l'avrebbe fatta stare a casa, invece di mandarla a lavorare in quei posti sperduti, o avrebbe ottenuto, con qualche raccomandazione, di farla lavorare in città. La zia Anna non sapeva che, col suo lavoro di donna che lei stessa aveva valutato come poco importante, aveva fatto la storia d'Italia, contribuito all'alfabetizzazione e all'unità del nostro paese. La zia Anna, bionda, bella, con gli occhi azzurri, nubile, con un sorriso asimmetrico che le faceva arricciare con grazia il nasino, arrivava nelle scuoline di campagna come una fata severa. Una mia amica mi ha raccontato di recente un suo caro ricordo della sua maestra, bionda, bella, vestita abbastanza alla moda, con lo smalto alle unghie e un filo di trucco, che negli anni sessanta insegnava in Casentino. I bambini la guardavano incantati. Mi sono dimenticata di chiederle se per caso non si chiamava Anna Domestici.